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La radice sempreverde del mercantilismo europeo

La persistenza della memoria, nella nostra affannata Europa, potrebbe figurarsi in mille vezzi e altrettanti tic. Uno in particolare, tuttavia, merita di essere raccontato con un qualche principio di accuratezza, giacché si è mostrato, nella nostra storia economica, il più persistente di tutti i vezzi e il più diffuso dei tic: il mercantilismo. La nostra radice, si potrebbe dire, che ancora ai giorni nostri genera fioriti virgulti.

Tutti quelli che frequentano le pagine dell’economia sanno quanto sia sfuggente definire compiutamente un movimento di pensiero, peraltro a-sistematico come era il tempo in cui è stato formulato, che affonda le sue radici proprio all’origine del pensare economico europeo, coincidente, non a caso, con l’affermazione degli stati nazionali. Purtuttavia, dovendo discorrerne, commetterò l’errore di semplificare per darne un’idea sintetica, e quindi necesariamente monca.

La sostanza è che la ricchezza delle nazioni, per usare l’espressione cara a Smith, omonima del libro dove criticò per ogni dove proprio la pratica mercantilista, derivava, per tali teorici, dall’aumento delle esportazioni e la diminuizione delle importazioni, quindi da un saldo crescente della bilancia commerciale come manifestazione economica del principio di potenza statale. Tale modo di pensare caratterizzò l’Europa fra il XVI e il XVIII secolo, conducendo a guerre di ogni tipo, commerciali, tramite l’imposizione di dazi, o guerreggiate. Perché un’altra caratteristica del mercantilismo era quella di poggiarsi a uno stato forte e bellicoso, procacciatore di territori dove mercanteggiare da posizione di forza.

Come esempio pratico ed eloquente, valga quello del primo Navigation Act inglese del 1651 o giù di lì, uno degli atti mercantilisti più noti, che finì col condurre alla prima guerra con gli olandesi, che proibì l’importazione di materie prime dalle piantagioni di Asia, Africa e America a meno che non viaggiassero a bordo di navi inglesi. La norma fu reiterata negli anni successivi e basta da sola a spiegare quale sia la logica di questa teoria: proteggere la produzione nazionale grazie a un fattivo supporto statale.

Lo stesso Smith giudicò il Navigation act uno strumento appropriato per difendere l’interesse nazionale, pur tessendo l’elogio del libero commercio.

Senonché Smith scriveva un secolo dopo la legislazione sulla navigazione, in piena fioritura dell’impero inglese. Ed è sicuramente facile essere liberali quando ci si candida a divenire potenza egemone. E quando, qualche anno dopo, Ricardo elaborò la teoria dei vantaggi comparativi, fu tutt’uno arrivare all’ortodossia del commercio libero, laddove ogni paese si specializzava in quello che sapeva fare meglio, per la gioia di tutti, mentre la mano invisibile trasportava le merci nel migliore dei modi possibili (e l’Impero inglese accumulava rendite).

Ci sarebbe da scrivere a lungo sul presupposto imperiale, e vagamente filisteo, di tale filosofia. Notando magari come anche l’altro impero, quello americano, erede di quello inglese, si sia affrettato a metter dazi e fare protezione mercantilista della propria bilancia commerciale non appena conquistata l’indipendenza. Per tacere dei dazi imposti al mondo dopo la crisi del ’29. Salvo poi, dalla metà del XX secolo, divenire a sua volta il campione del liberalismo del blocco occidentale, però comunque sussidiato dal denaro pubblico e incoraggiato dai cannoni.

Abbandoniamo la storia (ma ne riparleremo) e torniamo a oggi. E più precisamente a una istruttiva riflessione pubblicata di recente dalla Banca centrale europea intitolata “The rise of China e India: blessing or curse for the advanced countries?”

Gli economisti della Banca centrale sono provvisti dell’opportuno (e astruso) arsenale di equazioni per arrivare a conclusioni che è utile, ai fini del nostro ragionamento, riepilogare.

Il paper si preoccupa di analizzare il rapporto fra la crescita drammatica dell’export di Cindia degli ultimi anni e il livello di ricchezza dei paesi avanzati, e, segnatamente degli effetti sulla crescita dell’occupazione.

Tralascio le premesse tecniche relative alla costruzione del modello perché sono sicuro che nessuno di voi avrà voglia di perderci tempo. Ricordate però che le conclusioni di una ricerca dipendono sempre dalle premesse: ne sono una semplice conseguenza logica. Ed è nella premesse che si annida il punto debole di ogni teoria.

Detto ciò, vediamo cosa deduce il nostro autore. I punti salienti sono tre: la competizione per conquistare quote di importazioni da Cina e India ha un effetto positivo sui paesi avanzati. La prospettiva di vendere in questi mercati, vale a dire, è un potente stimolo per la ricchezza delle nazioni avanzate.

Punto secondo: la competizione, sia su import che export, genera effetti negativi per l’occupazione impegnata nel settore manifatturiero, ma non per l’occupazione nel suo complesso. Chi produce scarpe può soffrire, chi smercia derivati no, insomma.

Punto terzo: i paesi con una quota ridotta di occupazione nel settore manifatturiero e una bassa protezione del mercato del lavoro hanno beneficiato comparativamente di più degli altri dalla crescita di Cina e India. Cio spiega, ad esempio, perché la Germania o il Lussemburgo stiano meglio di prima.

Ciò basta all’autore per dedurne che, nel complesso, alla domanda se la crescita di Cindia sia una maledizione o una benedizione per i paesi avanzati, si può rispondere che “a conti fatti l’effetto è positivo”. A patto di ricordare però che tali effetti benefici si concentrano in paesi che godono di un mercato del lavoro meno specializzato nel manifatturiero, più flessibile e con un forte collegamento commerciale con Cindia.

Si potrebbe anche dire così: i paesi che si sono specializzati a produrre quello che Cina e India per adesso non producono, e che possono sempre più specializzarsi, godendo del vantaggio di un mcerato del lavoro flessibile, sono quelli che ci guadagnano di più dall’emergere di Cindia.

Ecco che riecheggia la teoria dei vantaggi comparati di Ricardo, secondo la quale Cindia fa bene a produrre nel manifatturiero e i paesi avanzati magari nei servizi (meglio se finanziari magari). Ma, al fondo, il pensiero mercantilista: esportare di più (quindi essere flessibili, a cominciare dal mercato del lavoro) per vivere sempre meglio, anche in un contesto in cui Cindia ha visto crescere la sua quota di export nel mondo dal 4 al 20% fra il 1980 e il 2012, con gli Usa che ormai spendono 500 miliardi di dollari l’anno per importare beni dalla Cina, con i quali la Cina finanzia il crescente deficit della bilancia dei pagamenti americano.

Quanto all’eurozona, le statistiche ci raccontano dei suoi surplus commerciali, che però non mutano la sostanza asfittica della sua crescita. Ma rimangono le esportazioni, così come leggiamo in tutte le dichiarazioni di intenti di politici ed economisti, il driver sul quale la zona euro dovrà puntare per uscire fuori dalle secche dell’eurodepressione.

Comprensibile che sia così, visto che l’austerità deprime la domanda interna, sia pubblica che privata, mentre la deflazione salariale indotta dalla disoccupazione predispone i paesi dell’euro alla meravigliosa flessibilità che si vuole propedeutica alla specializzazione (low cost) settoriale.

Il neomercantilismo europeo, e qui torniamo alla storia, ci riporta in pratica nel magico mondo anteriore alla prima guerra mondiale, quando il capitalismo dipendeva dalle esportazioni e dalla loro competitività e la mano pubblica ancora non figurava nemmeno nella contabilità nazionale, come invece ha iniziato a succedere nel primo dopoguerra, dopo la crisi del ’29 per principale ispirazione americana e per volenterosa applicazione tedesca. Ma questa è un’altra storia che prima o poi sarà divertente raccontare.

D’altronde che il neomercantilismo si sforzi di comprimere la spesa pubblica è comprensibile: gli stati indebitati non hanno più un euro da mettere nell’economia, e qualcuno direbbe che forse è meglio così.

Lo studio della Bce ha il merito, perciò, di riportare un’evidenza: siamo e saremo sempre più condannati ad esportare in Cina, importando un costo del lavoro cinese.

Per notare quanto sia profonda la radice mercantilista della nostra economia, però, vale la pena fare un ultimo tuffo nella storia dedicando l’ultima considerazione proprio alle banche centrali, delle quali la Bce è l’esperimento più avanzato – una banca centrale senza stato – che hanno avuto la loro antesignana nella Banca d’Inghilterra alla fine del XVII secolo, in piena epoca mercantilista. La BoE nacque per finanziare a un costo ridotto le guerre del sovrano inglese, non a caso. In tal senso fu la punta avanzata dello Stato nell’economia. Un’economia di guerra, sarebbe più corretto dire, del tutto coerente con la logica del mercantilismo. In tal senso le banche centrali sono un’avanguardia. Una sorta di ircocervo: metà stato, metà mercato.

E infatti, nel corso dei secoli le banche centrali non hanno fatto altro che difendere (in una logica di guerra) la moneta nazionale manovrando gli afflussi e i deflussi di oro (all’epoca del Gold standard), ossia le importazioni ed esportazioni della moneta-merce. Ma questa raffinata forma di protezionismo finanziario non viene mai analizzata adeguatamente. Si potrebbe scorgerne la natura squisitamente mercantilista di queste entità che oggi sono i nocchieri dell’economia, pubblica e privata.

Chi ha orecchi intenda, diceva il filosofo.



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