Ci sono i nomi di prole e parenti di alcuni tra i più alti leader cinesi tra quelli dei 20mila titolari di società nei paradisi fiscali off-shore rivelati dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ), che arrivano dalla Cina e da Hong Kong. Oltre ai principini rossi, l’inchiesta durata sei mesi e pubblicata da diversi organi d’informazione in tutto il mondo (per l’Italia il settimanale L’Espresso), conta magnati e dirigenti di grandi società.
Ricorrere ai forzieri occulti non costituisce necessariamente reato, ma per l’élite cinese rischia di rivelarsi uno scandalo, mentre è in corso la campagna anti-corruzione lanciata dall’alto per colpire “mosche e tigri”, ossia piccoli e grandi dirigenti che hanno abusato del loro potere. Coincide inoltre con l’apertura del processo contro Xu Zhiyong, attivista di punta del nuovo movimento dei cittadini, che aveva fatto della richiesta di pubblicare i patrimoni dei potenti – cosa che non sono tenuti a fare – uno dei punti della propria lotta civile dal basso. È inoltre di questi giorni la decisione di limitare la carriera dei cosiddetti “funzionari nudi”, come sono chiamati quelli che hanno familiari e ricchezze all’estero.
Secondo le stime dei giornalisti del ICIJ dal 2000, dalla Cina sono uscite ricchezze di cui si sono perse le tracce per un valore che oscilla tra i mille miliardi e i quattromila miliardi di dollari. In parte un modo per aggirare i limiti imposti da Pechino sulla circolazione di capitale. Tanto che i cinesi sono considerati uno dei fattori chiave del settore. Nelle sole isole Vergini britanniche, scrive l’ICJ, il 40 per cento del business off-shore arriva proprio dalla Repubblica popolare e da altre nazioni asiatiche.
LE RICCHEZZE DEI PRINCIPINI
L’inchiesta si pone sul solco del lavoro svolto negli ultimi due anni da Bloomberg e New York Times, che hanno rispettivamente scavato nelle ricchezze della famiglia del presidente, Xi Jinping, e in quelle accumulate dai congiunti dell’ex premier Wen Jiabao, negli anni del suo mandato. È stata pubblicata inoltre a stretto giro dalla difesa dell’ex primo ministro, che in una lettera inviata a un editorialista del Ming Pao di Hong Kong, aveva rimarcato la propria integrità, in quella che è considerata la prima risposta al giornale statunitense e alle rivelazioni sui 2,7 miliardi di dollari accumulati dai suoi familiari.
Un tentativo secondo alcuni commentatori per riproporre l’immagine di politico vicino ai cittadini e attento ai valori e allontanare da sé lo spettro di essere la prossima vittima della lotta contro la corruzione, che negli ultimi mesi si ritiene possa colpire l’ex potente zar della sicurezza Zhou Yongkang, numero nove del passato comitato permanente del Partito e uomo forte dell’industria petrolifera cinese, molti dei cui dirigenti sono finiti di recente sotto indagine.
FIGLI DELL’ÉLITE E MAGNATI
Ma tra i nomi dell’inchiesta spiccano proprio quelli dei figli di Wen. Fino al 2008, il figlio Wen Yusong aveva una società di consulenza alle isole Vergini britanniche, la sorella Wen Ruchun, conosciuta anche con il nome di Lily Chang aveva invece una propria società di consulenza che raccoglieva elargizioni da JP Morgan (si parla di 1,8 milioni di dollari in consulenze), tanto da spingere le autorità finanziare Usa a indagare se questo fosse dovuto all’obiettivo della banca accrescere la propria influenza in Cina. Una storia già passata al setaccio dal New York Times.
Sempre alle isole Vergini è regista una società immobiliare il cui 50 per cento era detenuto nel 2008 da Deng Jiagui, cognato di Xi Jinping. E ancora Li Xiaolin, figlia di Li Peng, il macellaio di Tian’anme, Wu Jianchang, genero del piccolo timoniere Deng Xiaoping; Fu Liang, figlio di Peng Zhen, uno degli Otto immortali delle rivoluzione comunista. Ma nella lista sono finiti anche imprenditori come Huang Guangyu, già uomo più ricco della Cina, fondatore della catena di negozi per elettrodomestici Gome, dal 2010 in carcere per una condanna a 14 anni per truffa e insider trading; o Ma Huateng, cofondatore del colosso internet Tencent.
CENSURA OLTRE MURAGLIA
La propaganda ha dato indicazioni affinché i nomi citati dall’inchiesta non siano menzionati in Cina, mentre il sito del Guardian, uno dei quotidiani partner dell’ICIJ è inaccessibile dalla Cina, come già accaduto nelle scorse settimane, almeno che non si usi una vpn. Al lavoro di scrematura dei dati che “ha toccato ogni angolo dell’economia cinese dal petrolio alle rinnovabili, fino alle miniere e al commercio di armi” hanno contribuito anche reporter cinesi.
Il giornale cinese che ha partecipato all’inchiesta è stato tuttavia diffidato dal pubblicare il materiale, parte del lavoro sui paradisi off-shore emerso dall’analisi di oltre 2,5 milioni di file iniziata nel 2012, fonte delle prime inchieste dell’ICIJ pubblicate lo scorso aprile.
LE BANCHE OCCIDENTALI
I China Leaks, come sono stati rinominati, mettono inoltre in luce il ruolo delle banche e istituti finanziari occidentali in particolare PricewaterhouseCooepr e UBS, ma anche Credit Suisse, nel fungere da mediatori per i clienti cinesi nell’apertura e holdings, trust e società di varia natura nelle Isole Vergini britanniche, Samoa e altri paradisi fiscali.