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La riforma del Senato di Renzi e Berlusconi? Una rivincita di De Gasperi

La trasformazione del senato fotocopia della camera dei deputati in senato delle autonomie, previsto nella intesa fra Renzi e Berlusconi, costituisce una rivincita storica postuma di Alcide De Gasperi (presidente del consiglio), Costantino Mortati (presidente della II sottocommissione della commissione dei 75), Attilio Piccioni (segretario della Dc) e Aldo Moro (uno dei professorini democristiani più solidale col leader che col gruppetto dossettiano) rimasti soccombenti nell’aula di Montecitorio nel 1947 a causa di uno dei tanti compromessi fra destre e sinistre che costellarono il processo formativo della carta costituzionale.

Nel lavoro costituente si contarono compromessi di ogni sorta. Non pochi gruppi e personalità cambiarono non raramente opinione, specie in materia ordinamentale. Le convergenze fra destre e sinistre in materia elettorale (o per convenienza anticlericale) costituirono un’abitudine convergente per colpire la politica complessiva di De Gasperi, specie in tema di politica estera. Ma la storiografia prevalsa omette quegli scambi continui fra schieramenti contrapposti, mirati a indebolire il ruolo, la forza e le ragioni di De Gasperi.

Già nei primi due documenti fondativi della Dc – Le idee ricostruttive della democrazia cristiana e il Programma di Milano datato 25 luglio 1943 – il partito di De Gasperi si pronunciò a favore di un sistema parlamentare bicamerale, ma molto differenziato fra camera dei deputati e senato. I comunisti erano monocameralisti. Le destre risentivano ancora dello spirito dello Statuto Albertino e propendevano per una camera di eletti e una camera Alta di nominati.

La linea democristiana era diversa. Concepiva le assemblee legislative come organi di rappresentanza della volontà popolare. Con la specificazione che tale rappresentanza dovesse risultare organica e, in quanto tale, duplice: cioè la Dc propugnava: a) una rappresentanza politica e individuale, espressione diretta della volontà del singolo; b) una rappresentanza istituzionale degli interessi di enti e organismi e mondi economici, territoriali (come famiglia, sindacato, regioni, enti di azione cattolica, università e istituzioni culturali e assistenziali, esperti delle alte magistrature dello Stato). Si osservava in proposito nello scudocrociato che, con la rappresentanza delle forze del lavoro si sarebbe ostacolata la conquista dello Stato da parte delle forze del capitale, mentre con la rappresentanza delle regioni si sarebbe stabilito un legame fra i poteri centrali e gli autonomi organismi locali.

La Dc degasperiana considerava le esperienze del monocameralismo (Germania, Spagna, ecc.) non felici. Riteneva più funzionale e utile due assemblee: diverse per formazione, composizione, rappresentanza. Il senato non doveva essere nominato dal capo dello Stato (come nella monarchia sabauda) e non doveva neppure essere espressione di privilegi di classi superiori (come nello Stato liberale prefascista). Un senato delle regioni e dei compositi interessi presenti nella società veniva considerato dalla Dc come una innovazione costituzionale di ampio respiro e di pari ampia garanzia democratica. Anche il fatto che camera e senato potessero essere eletti non contemporaneamente e da due diversi corpi elettorali, veniva considerato dalla Dc degasperiana come elemento di garanzia di maggiore libertà di giudizio degli elettori e della loro mutabilità, entrambe influenzanti in maniera permanente il controllo sull’esecutivo.

Il presidente della II sottocommissione della commissione dei 75, Mortati, sostenne, d’intesa con De Gasperi, che caratteristica del regime parlamentare fosse di annullare ogni separazione dei poteri, sostituendovi la distinzione delle funzioni fra organi diversi, legati da stretti rapporti di connessione e di dipendenza reciproca. Ma ciò implicava l’esigenza di garanzie delle minoranze escluse dall’esercizio del governo, così da rendere efficiente al fine suo proprio l’istituto della dissoluzione (in caso di disaccordo con la volontà popolare ovvero tra le due camere) e rendere possibile un indirizzo politico almeno relativamente stabile ed unitario.

Mortati riteneva che i criteri di scelta per la formazione della seconda camera (o camera Alta o, meglio, senato) dovessero obbedire ai seguenti scopi: 1) assicurare solo genericamente una maggiore ponderazione e riflessione quale poteva apparire garantita dall’età più matura dai componenti l’assemblea e degli stessi elettori; 2) offrire la garanzia del possesso di determinate competenze, risultato conseguibile predeterminando categorie di eleggibili in base a precisi requisiti di cultura, o alla copertura di dati uffici, o all’appartenenza a varie categorie professionali; 3) consentire l’espressione di interessi che rimanessero compressi o confusi o implicitamente espressi con altre forme di rappresentanza.
L’importante era, secondo la Dc, assicurarsi che gli elementi assunti a base della rappresentanza possedessero capacità politiche. Cioè fossero suscettibili di inquadrare gli interessi di cui erano portatori specifici nell’ambito di interessi generali, dimostrando di volere e sapere armonizzare l’interesse particolare con l’interesse generale.

Contro i ragionamenti e le proposte della Dc di De Gasperi e Mortati si pronunciarono il 23 settembre 1947 il comunista Laconi, il socialista Targetti, il liberale Rubilli, il sardista Lussu, i quali respinsero, per appello nominale (213 voti contro 162) un odg Piccioni-Moro favorevole ad un senato rappresentativo degli interessi e delle regioni. Tanto le sinistre che le destre dissentivano palesemente dall’introduzione delle regioni, volute invece con decisione dalla Dc e dai repubblicani. Il 6 ottobre una nuova collusione fra sinistre e destre (questa volta ancor più autorevole e avvenuta a scrutinio segreto): venne presentato in aula a Montecitorio un odg Nitti-Togliatti (risultato approvato con 190 voti contro 181) col quale si fissava l’elezione del senato «col sistema del collegio uninominale», cioè quello in uso in Italia per la camera sin dai tempi di Carlo Alberto. La Dc propugnava al contrario il sistema proporzionale, col quale si era proceduto alla elezione della assemblea costituente. Il repubblicano Tommaso Perassi invitò i colleghi della sinistra “ad essere più seri”.

Il connubio antiautonomista e antiregionalista fra Nitti e Togliatti portò al grande pasticcio costituzionale di un bicameralismo non perfetto, bensì meramente ripetitivo di funzioni tipiche della camera. Lo stesso schema architettonico studiato nella commissione dei 75 ne risultò stravolto. Gli accademici, di massima, evitarono di studiare quale fosse il vizio d’origine di un ordinamento produttore di complicazioni, ripetizioni, assurdità procedurali, lentocrazia.

Ora il patto del Nazareno fra Renzi e Berlusconi sembra voler riparare a errori storici commessi nel 1947 dai compromessi pregiudizialisti fra il capo della destra radicale e il capo di un Pci che respingeva tutto ciò che non capiva e non trovava minima corrispondenza nelle carte dell’Unione Sovietica. Ma va detto con forza che il 18 gennaio 2014, almeno nella questione focale del ripescato senato delle autonomie, De Gasperi e la Dc originaria si sono presi (dall’alto) una rivincita storica clamorosa, sebbene, purtroppo, postuma.

 



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