Sapete com’è in Russia: è tutto un estremo. Una terra sterminata, estremamente ricca di cose preziose che dimorano nel mistero del suo sottosuolo. E poi un popolo che ha sempre vissuto l’estremo come declinazione della politica e del sentimento. Il tratto infantile dei russi, quindi, che conduce l’osservatore occidentale a dipingerli ora come santi squinternati, ora come despoti irredimibili, ora ultima avanguardia, quindi assai remota, di un certo essere come noi. E perciò come fratelli che sbagliano, nella migliore delle ipotesi, perché in fondo ci somigliano talmente che quasi ci vergognamo di specchiarci nei loro occhi gelido-siberiani.
Estremo – e non poteva essere diversamente – è anche il tempo che sta vivendo l’economia russa, sempre troppo poco osservata dai nostri occhiuti concittadini, assai più attenti alle vaghezze imperiali di Putin o agli accasamenti londinesi dei plutocrati che controllano il Paese, come ai tempi dello zar. Il che diminuisce la nostra comprensione di quel che accade laggiù. Ce lo rende remoto, quindi orientale, quando al contrario è tremendamente occidentale, quindi europeo.
Eppure non serve chissà quale sforzo per capire, per raggiungere almeno quella comprensione astratta, perché libresca, che possiamo trarre leggendo gli aridi documenti ufficiali dell’Ocse o della banca centrale russa. Basta questo però, avendo voglia di farlo, a scorgere fra la filigrana dei numeri e delle statistiche l’anima russa contemporanea, e riscoprirla antica. La Russia dei balletti degli anni Venti, nientemeno. Quel misto di talento, virtuosismo e pazzia finito, non a caso, nel 1929, quando la morte di Diaghilev, il celebre impresario che per vent’anni aveva condotto i Balletti nel cuore ruggente della Parigi di quel tempo, mise fine alla compagnia finita in mano ai creditori. Vent’anni di gloria, però. Finiti nella migliore tradizione russa: nel disastro. Sempre per essere estremi.
Che ci racconta allora la contabilità russa di questi tempi?
Ci dice, tanto per cominciare, che il debito estero della Santa Madre non smette di crescere. Il debito totale era di 538 miliardi di dollari a dicembre 2011, poi è arrivato a 636 mld a dicembre 2012, e ha raggiunto i 732 miliardi a dicembre 2013. Cento miliardi l’anno di debiti esteri in più è estremo abbastanza da esser russo. E infatti è tutta la società che beneficia di questa pioggia d’oro: il governo federale, che passa dai 33,5 miliardi del 2011 ai 62,7 del 2013, le banche, dal 162,7 mld del 2011 ai 214,9 del 2013, e gli altri settori, privati quanto possono esserlo in Russia, che sono passati dai 329,8 mld del 2011 ai 437,8 del 2013.
Anche qui, non è che sia una gran novità. La Russia ha sempre attinto a piene mani ai soldi esteri. Soldi prestati accendendo pegno sulle ricchezze russe, petrolio, gas, diamanti, e tutto quel ben di Dio che è stata sempre la fortuna e la rovina della Russia.
Anche oggi infatti. L’Ocse ci dice che il deficit fiscale della Russia, senza il contributo delle entrate collegate al settore Oil sarebbe al 12%, non al mini surplus dell 0,4% registrato a fine 2012, che peraltro è diventato un deficit dello 0,7% nel 2013 e si prevede peggiori fino all’1% quest’anno.
Ma il problema della Russia, per adesso, non è quello fiscale.
Il problema è il conto corrente della bilancia dei pagamenti. Nel 2008 il Current account mostrava un surplus di quasi 99 miliardi di dollari. L’esplodere della crisi lo ha più che dimezzato, facendolo crollare a 44 mld. Quindi la ripresa, che la riportato il saldo a 92 miliardi nel 2011, e da lì un’altra costante crisi: scende a 73 miliardi nel 2012 e a meno della metà, circa 33 a fine del 2013.
Quali sia la ragione di questo andamento, possiamo capirlo scorrendo le singoli voci del conto corrente. Se guardiamo i dati dal 2005 in poi notiamo che l’attivo di conto corrente dipende esclusivamento dal saldo commerciale, ovvero l’export di beni, che poi nel caso russo sono i beni energetici che portano con sé la scomoda controindicazione di essere correlati all’andamento dei corsi delle materie prime. Il saldo dei servizi è costantemente negativo, così come quello dei redditi. Altre informazioni possiamo trarle osservando la dinamica dei saldi.
Nel 2005 il saldo commerciale quotava 115 miliardi di attivo. Nel 2013 è stimato a 177, in calo rispetto ai 192 del 2012. In nove anni, quindi, il saldo commerciale russo è migliorato di circa il 54% a prezzi correnti.
Nel 2005 il saldo dei servizi mostrava un deficit di circa 10 miliardi. Nel 2013 il deficit dei servizi è arrivato a 59 miliardi, in crescita rispetto ai 46,5 del 2012: quasi sei volte il dato del 2005.
Nel 2005, il saldo dei redditi che, lo ricordo, misura la differenza fra quanto rendono gli investimenti esteri ai russi, e quanto rendono agli investitori esteri gli investimenti in Russia, misurava circa 17,5 miliardi di dollari. Nel 2013 il deficit era arrivato a 66,2 miliardi, quasi quattro volte tanto. Perché, vedete, i debiti esteri costano cari, specie se magari denominati in valuta straniera, e bisogna pur pagare gli interessi.
Cosa ci dice l’analisi (superficiale) dei tre saldi: che la crescita del surplus commerciale è stata assai meno robusta di quella del deficit sugli altri due saldi. Si potrebbe dire che aumentare i debiti esteri, per comprare più merci e servizi dall’Occidente, non abbia fatto gran bene all’economia russa. Avranno pure comprato casa a Londra o una bella squadra di calcio, ma a che prezzo?
L’Ocse rileva che uno dei fattori più preoccupanti della situazione economica russa è proprio la crescita impetuosa del credito, in particolare del credito al consumo ai privati che, curiosamente, non si indebitano per comprare la casa o l’automobile, ma qualco’altro. Parliamo di una crescita nell’ordine del 40% nel 2012, che solo di recente ha spinto la banca centrale a metterci un freno, riuscendo a limitarla al 35% nei primi tre trimestri del 2013.
La “sparizione” dell’attivo di conto corrente e l’aumento di debito estero non potevano che avere effetti sul rublo, che nel forsennato balletto anni Venti che sta ballando la Russia nel nostro tempo ha finito con lo scivolare malamente. Sono passati solo pochi mesi (aprile 2013) da quando la Banca centrale è dovuta intervenire per sostenere la moneta nazionale che aveva perso parecchio rispetto al proprio paniere di valute di riferimento, fondato su euro e dollaro. In sostanza, la Banca ha dovuto vendere valute ester per sostenere il rublo. E sarà pure un caso, ma le riserve, che ammontavano a 537 miliardi a fine dicembre 2012 sono scivolate al minimo di 515 alla fine del 2013. Un calo delle riserve non è mai un buon viatico per la salute di una moneta, dicono i manuali di economia. E di sicuro è una di quelle cose che gli asset manager guardano sempre con attenzione.
In questo contesto, con i tassi fermi da un anno e più all’8,25%, malgrado il malcelato disappunto di Putin, perché l’inflazione non si raffredda, e ciò malgrado un rublo che minaccia di scendere ancora, si inserisce la coreografia del nostro bellissimo balletto, che ci racconta l’ultimo economic surveys sulla Russa pubblicato di recente dall’Ocse.
La riscossa del debito estero è dovuta, lo abbiamo visto, in larga parte alle banche e ai prestiti ottenuti da settore privato, quindi famiglie e imprese. La banca centrale, che dovrebbe guardare con attenzione a questa variabile, è la prima azionista della Sberbank, che detiene circa la metà dei depositi retail e un terzo degli asset del sistema bancario nazionale.
Quest’ultimo ha visto quintuplicare i suoi asset dal 2005 in poi, passando da circa 10 trilioni di rubli a 50 trilioni, la metà dei quali sono in pancia a banche controllate dallo Stato. Così come sono controllate dallo Stato circa l’80% delle imprese più rilevanti. Il che colloca la Russia al terzo posto di questa classifica dove primeggia la Cina, seguita dagli Emirati Arabi.
Al di là della loro titolarità, è lo stato di salute del sistema industriale russo a preoccupare. Le imprese russe si collocano al secondo posto, dopo l’Islanda, nella classifica dell’inefficienza energetica. Le imprese russe consumano un sacco di energia per produrre, e quindi sopportano un costo più elevato. E per giunta sono al top delle emissioni inquinanti. Ciò denota un sistema industriale obsoleto e costoso, che, unità alla bassa produttività del lavoro, stagnante da oltre un decennio, non lascia molto spazio alla speranza che la Russia, persino svalutandosi il rublo, sia capace di esportare qualcosa di diverso dalle sue riserve di materie prime. E questo ci riporta alle dinamiche del conto corrente e alla prospettiva che, non rialzandosi i corsi delle materie prime, la Russia finirà col mangiarsi quanto ha faticosamente messo da parte finora.
Tutto ciò si inserisce in un contesto sociale sfavorito dalla demografia, che vede un basso tasso di fertilità e un alto tasso di mortalità prematura, e da un rilevante tasso di povertà, con un 14% di salariati che vivono sotto il livello di sussistenza, malgrado i salari reali nel 2012 siano raddoppiati dal livello del 1992. La distribuzione della ricchezza è ancora profondamente diseguale, peggio della Cina. E poi da una situazione istituzionale caratterizzata da un alto tasso di corruzione, che certo non favorisce gli investimenti esteri, all’1,6% del Pil nel 2012. Nella classifica internazionale della trasparenza la Russia è fanalino di coda. Come se non bastasse, il mercato del lavoro risulta fra i meno qualificati.
L’Ocse si aspetta che l’ingresso della Russai nel Wto, celebrato in pompa magna nel 2012, possa servire a superare queste incrostature ereditate dalla storia. Ma come al solito si pecca di semplificazione se non si capisce che il balletto russo, proprio come negli anni Venti, si nutre di tradizione più che di innovazione. Il peso della storia, in Russia, è estremo, come tutto il resto.
E la storia, in Russia, non è mai finita bene.