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Ecco i rischi di una Cina meno scalpitante

Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo l’articolo di Marcello Bussi uscito sul quotidiano Mf/Milano Finanza edito dal gruppo Class Editori.

Un’ondata di panico. È quella che ha colpito i mercati emergenti giovedì 23 e venerdì 24 finendo per arrivare anche in quelli sviluppati. Un copione già visto nel maggio dello scorso anno, quando il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, aveva annunciato l’intenzione di iniziare il processo di uscita dal programma di acquisto di asset, innescando una fuga di capitali dai mercati emergenti. Bernanke aveva poi precisato le sue dichiarazioni, facendo capire che l’inizio della riduzione degli acquisti (tapering) non era poi così imminente e sui mercati era presto tornata la calma. Poi il tapering era cominciato a dicembre, in anticipo rispetto alle aspettative dei mercati, che però avevano reagito con una serie di rialzi perché era stata finalmente eliminata un’incognita ingombrante. Il 29 gennaio, all’ultima riunione della banca centrale Usa presieduta da Ben Bernanke (dopodiché il suo posto sarà preso da Janet Yellen) è atteso un nuovo taglio di 10 miliardi di dollari al mese di acquisti della Fed. L’avvicinarsi di questa data ha fatto scattare il panico. Sia chiaro: a ogni irrigidimento della politica monetaria Usa corrisponde una diminuzione della propensione al rischio e quindi un ritorno dei flussi di denaro verso i porti sicuri dei Paesi sviluppati. Sono movimenti fisiologici. Il rischio è che questi spostamenti avvengano a velocità troppo elevata, lasciando gli emergenti in braghe di tela con il timore che il contagio si diffonda anche a Stati Uniti, Europa e Giappone. Come ha osservato Steven Englander, capo strategist valutario di Citigroup, «il timore è che la Fed, la Banca d’Inghilterra e perfino la Banca del Giappone diventino meno colombe in modo più rapido di quanto si pensasse fino poche settimane fa».

Secondo Paul Lambert, «al momento l’aggiustamento dei mercati è ordinato. La lira turca e il rand sudafricano non sono sotto pressione a causa di attacchi speculativi ma per la mancanza di domanda di asset in quelle valute, un problema quando si ha un grosso deficit delle partite correnti. Nel caso di buone condizioni economiche, come nel caso del Messico, al momento si tratta di un aggiustamento di posizioni sovrappesate e non di scommesse negative sul Paese». Il messaggio è che non bisogna fare di ogni erba un fascio. Come ha sottolineato Neil Shearing di Capital Economics non si può mettere nello stesso mazzo Messico e Ucraina. Se Paesi come Argentina, Venezuela, Sudafrica e Turchia hanno seri problemi economici, le cose vanno invece bene in Corea del Sud, Filippine e Messico. Un Paese come l’Argentina, inoltre, dove dall’inizio dell’anno il peso ha perso il 19% nei confronti del dollaro, toccando i minimi degli ultimi 12 anni, influisce in misura davvero minima sui mercati internazionali e quindi può essere abbandonato in santa pace ai suoi guai. Tutto lascia pensare che la fuga dai mercati emergenti sia destinata a rientrare presto. A meno che. E qui c’è la vera incognita, ancora sottotraccia: la Cina. Non tanto per il rallentamento in atto dell’economia. Ma per il rischio che esploda la mina del sistema bancario ombra. I primi scricchiolii sui mercati emergenti sono infatti cominciati quando si è iniziato a parlare del default di un trust, un fondo fiduciario. Default che dovrebbe essere evitato, ma potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Perché il debito del sistema bancario ombra è valutato in 4.800 miliardi di dollari, pari al 55% del pil cinese nel 2012. (riproduzione riservata)


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