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I limiti del vetero-popolarismo

Le rievocazioni storiche sono utili a mantenere vive tradizioni, idee, figure di uomini d’intelletto impegnatisi nel considerare una cultura politica valida in certi contesti, e non in altri. A tale compito provvedono varie istituzioni, di varia estrazione ideale che, anche a causa di scarsi mezzi finanziari, non riescono a tenere il passo con organismi troppo collegati col potere – qualsiasi potere politico – o lo fanno disinvoltamente. Rischiando l’incoerenza, le omissioni e gli stravolgimenti di analisi che meritano invece di aggiornarsi di continuo, ricorrendo a nuovi approfondimenti e ricerche, senza eccedere nella nostalgia, badando ad essere obbiettivi e propositivi.

Anche convegni recenti, autorevoli, hanno inteso rievocare momenti topici della nostra storia patria: in particolare quello che vide il crollo dei partiti della Prima Repubblica e l’inaugurazione di una Seconda Repubblica non più avanzata di quella decaduta. Si è cercato nell’occasione di rendere gli onori delle armi ad alcune personalità che, invero, non immaginarono un futuro più radioso e più democratico, ma si abbandonarono a campagne epurative sanzionate da un moralismo giustizialista tutt’altro che costruttivo e del tutto inadeguato a contenere una decadenza di ideali, progettualità istituzionale, valutazione realistica delle forze in campo e, dunque, indicazione delle alleanze politiche inedite che si suggerivano per andare, in certezza di democrazia, oltre il crollo del comunismo mondiale.

Martinazzoli, Castagnetti, Marini, Buttiglione, Jervolino e altri che collaborarono al tentativo di salvare l’esperienza storica del cattolicesimo politico italiano, non si preoccuparono di recuperare né lo sturzismo né, soprattutto, il degasperismo: che avevano introdotto i concetti dell’autonomia della politica dei cattolici, dell’autonomismo locale, del dialogo permanente con le forze democratiche laiche. Nel 1994 non si guardò avanti; si rivolse lo sguardo all’indietro, peccando di presunzione politica, chiudendo le porte all’intero passato democristiano, inseguendo farfalle clericali, rispolverando integralismi falliti da decenni, espellendo amici e dando credito ad avversari. Le esperienze di derivazione postdemocristiana sono state, a tratti, anche generose; ma sono risultate velleitarie e improponibili per il futuro. Il numero stesso delle formazioni emerse dopo la Dc evidenzia l’esistenza e la persistenza di un pluralismo di posizioni (molte delle quali meramente personalistiche) che di per sé ha impedito e blocca qualsiasi progetto unitario.

Riproporre oggi aggregazioni già rivelatesi scarse politicamente, non costituisce una spinta alla convergenza né di giovani né di anziani. Quando poi si celebra l’errore politico della mescolanza delle culture – la cattolico popolare con il postcomunismo in crisi di identità -, si ferisce la memoria storica. Si cerca un assemblaggio purchessia, ma non si spiega per quali ragioni mai certi pasticci dovrebbero attrarre quanti pensano a un domani più certo, coerente, plurale e non connesso a meticciati sconcertanti.

Talvolta le commemorazioni servono più a coprire e confondere le manchevolezze del passato che a progettare un futuro più consono ai cambiamenti strutturali e culturali nel frattempo intervenuti in Italia e nel mondo. A questo, e non a giustificare opportunismi recenti davvero meschini, dovrebbero provvedere le fondazioni culturali. Così come, chi riscopra inclinazioni politiche, non può rifugiarsi attingendo ai canoni dell’antica scuola sociale cristiana, a codici che hanno fatto il loro tempo ed erano già tardivi nel 1994, o soffermarsi su terze vie e su continuismi istituzionali che ormai hanno sapore di posticcio e anche di irriguardoso verso chi, invece, formuli idee volte a un domani che non sia uguale o peggiore del passato.



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