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Ecco perché i cittadini italiani hanno “divorziato” dalla politica

La cronaca di questi giorni si è focalizzata su un’auspicabile riorganizzazione del sistema politico italiano lungo le coordinate tracciate dalle “grandi famiglie politiche europee”. In verità, anche negli anni passati, con l’avvicinarsi delle elezioni europee, una simile tendenza è stata più volte evocata. Oggi, l’elaborazione in corso di una nuova legge elettorale nazionale, le continue pulsioni alle quali sono sottoposti i partiti e, probabilmente, un’effettiva volontà in tal senso, inducono a pensare che un nuovo scenario sia alle porte. Ma, come il passato ci insegna, è meglio non illudersi (in un senso o nel suo opposto).

Tuttavia, il continuo desiderio di ancorarsi allo “schema” europeo, riemerge quando non si riesce a coprire il vuoto di identità delle formazioni politiche italiane. Quando, in altri termini, ci si rende conto che un profilo identitario ben definito è indispensabile per affrontare una competizione politica.

La mancanza di «chiarezza di identità» per il campo di centrodestra come per quello di centrosinistra è un nodo da sciogliere per concludere la «fase di infinita transizione» e sperare che «anche in Italia ci siano due forze politiche in grado di integrarsi a pieno titolo e con pari legittimità nelle due grandi famiglie europee». Un simile auspicio è espresso da Giuseppe De Rita e Antonio Galdo ne Il popolo e gli dei. Così la Grande Crisi ha separato gli italiani (Laterza, pp. 104). In realtà, i due autori inseriscono tale prospettiva in un discorso più ampio che discute le conseguenze delle tre grandi fratture che segnano l’Italia attuale, provocate rispettivamente dal «furto della sovranità», dalla «fine della rappresentanza» e dal «potere cieco dei mercati».

L’analisi di De Rita e Galdo torna in più passaggi sul «divorzio consensuale» fra politica e società civile e sulla «rivoluzione» antropologica, che, insieme, marcano gli anni della Grande Crisi. La distanza tra il popolo e gli dei – fra i cittadini e coloro che sono chiamati a esprimere le loro istanze nelle istituzioni – è evidente nello “svuotamento” del suffragio universale. I cittadini sono ormai sudditi, derubati del loro «potere reale» perché soggetti passivi di decisioni assunte da chi detiene effettivamente la sovranità, ossia «i gironi opachi e incontrollati della grande finanza internazionale» che orienta, giorno per giorno, il mercato. E così, a prevalere è la ricerca di piccoli spazi – la famiglia, l’impresa, il territorio – dove esercitare una propria «microsovranità».

Infatti, l’inadempienza della classe politica ha incitato una «furia popolare» che ha travolto la credibilità dei partiti, seminando allo stesso tempo false convinzioni nell’opinione pubblica. Come, per esempio, quella di non riconoscere valore alla professionalità del mestiere politico, oppure il credere che i rapporti nati attraverso la Rete possano sostituire la rappresentanza. Nel primo caso, si dimentica che «la politica ha una tecnicalità che richiede mestiere, competenza, esperienza, tirocinio, e innanzitutto il radicamento in una cultura di riferimento»; nel secondo, che «se la Rete, per sua natura, crea rapporti orizzontali, la politica, per esprimere leadership, ha invece bisogno di verticalità e di connessioni».

Per queste ragioni, la politica ha una «necessità vitale» di organizzazioni, ossia di partiti portatori di messaggi chiari in termini di condivisione e di appartenenza. La chiarezza delle prospettive nella dimensione politica potrebbe aiutare anche a raggiungere un obiettivo economico-sociale auspicato da De Rita e Galdo: la riduzione delle diseguaglianze, le quali, sempre più numerose, alimentano l’avanzata di un’emergente «lotta di classe», non più ispirata all’idea marxista dell’emancipazione dei popoli e all’estensione e alla condivisione del benessere, ma a «una forma liquida di malcontento e invidia sociale».

Tuttavia, la ricostruzione proposta dai due autori non trascura elementi di ottimismo. È pur vero che grazie alla «capacità di adattamento» siamo sopravvissuti alla Grande Crisi e che siamo sempre più un «popolo della sabbia», fragile per definizione, ma nel nostro tessuto sociale non sono assenti segnali di vitalità, comprovati da numerosi dati empirici (per esempio, al mese di gennaio 2013 risultavano iscritte alle Camere di Commercio 675.000 imprese under 35, con un aumento del 10 per cento rispetto all’anno precedente). Per ritrovare «ciò che unisce» e trasforma la sabbia in mattoni, concludono De Rita e Galdo, occorre tempo.

E, quindi, per afferrare una «nuova identità» è necessario avviare un processo di sviluppo e di crescita, che deve essere accompagnato da classi dirigenti non più «sfarinate» e appiattite sul presente, ma capaci di progettare il domani. Potranno farlo – in particolare l’élite politica – solo se saranno in grado di esprimere esse stesse un’identità forte e riconoscibile.



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