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Cosa ci rivela l’Italia di De Rita, Diamanti e Ricolfi

Giuseppe De Rita a ritmi meno frequenti, Ilvo Diamanti e Luca Ricolfi con cadenze più ravvicinate, cercano d’intrattenere la classe dirigente su ciò che muta continuamente nel corpaccione italico, da tempo remotissimo non più rispondente alla veterotripartizione fra classe operaia, ceto medio e forze del capitale. I politici si mostrano sensibili ai consigli e agli avvertimenti di tali studiosi, ma poi si comportano secondo una logica che, con le scienze sociali ed economiche, nulla hanno a che vedere; così concorrendo ad accentuare le distanze fra politica e società.

Forse andrebbe precisato: fra politica decaduta e società del frammento; cioè mutevole, con tendenza a privilegiare l’interesse minuto e marginale piuttosto che a cercare di precisare visioni d’assieme, rispettose della realtà viva e non delle interpretazioni obsolete e devianti.
Ultimamente Ilvo Diamanti si è soffermato sul declino dei ceti medi, per rilevare come essi siano andati progressivamente perdendo mordente in coincidenza con uno sviluppo economico che «ha cambiato geografia e localizzazione produttiva». Conclusione: si è venuta a creare una «società media», comprendente anche alti settori operai, sulla quale più penetranti sono risultati gli effetti della crisi economica. «L’ascensore sociale, in pochi anni si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale». Fin qui, più o meno, si può concordare: la fotografia è corretta. Ma è l’angolo di visuale dal quale ogni fotografo fa i suoi scatti che può indurre a letture politiche diverse e, dunque, a progetti differenziati, ed anche contrapposti.

Diamanti sostiene che «il declino dell’Italia media e cetomedizzata» «segna il brusco risveglio del “sogno italiano” interpretato dal berlusconismo». È una lettura più che legittima, che intanto contraddice l’idea che Berlusconi abbia solo seminato e raccolto populismo. Ma si può avere anche un’opinione diversa. Cioè pensare che sia stata la crisi economica, di dimensioni mondiali e non fronteggiata virilmente in Italia (per un eccesso di subordinazione alle tesi del gruppo Bildeberg e agli interessi del marco germanico), non solo ad abbassare le capacità propulsive del ceto medio, ma a fare insorgere un estremismo classista che, aggiunto al peso enorme dei vincoli monetaristi, ha rimesso in gioco le estreme: specie un operaismo rivendicazionista cui le sorti del ceto medio importano poco o nulla.

Insomma, grazie al montismo, al radicalismo delle sue scelte economiche, politiche e istituzionali, l’area cetomedizzata della società si è ulteriormente allargata (per esempio ai pensionati) nelle dimensioni, fortemente abbassata quanto a livelli (e non solo percezioni) di redditi, complessivamente spingendola verso un blocco di povertà, chiamiamola dignitosa. Ma l’impoverimento non costituisce mai una premessa per sognare grandi recuperi economici, fra l’altro imponendo carichi fiscali da Paese straricco.



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