Non c’è riforma senza un pensiero forte che la sorregga. Trasformare il senato come vuole Renzi è un esercizio banale e forse inutile perché guidato da una idea modesta: la riduzione del numero dei senatori e dei costi (i sindaci-senatori a Roma una volta al mese!). Stupisce che il sindaco di Firenze non parli mai di autonomia (per questo e non per altro dimostra di non aver radici democristiane). Il federalismo è una cultura, è un modo di concepire ed organizzare la politica, lo stato ed i rapporti tra le diverse componenti dello stato (per Sturzo il senso dello stato era il senso delle “componenti” dello stato!).
È una visione complessiva che va, come ripeteva Sturzo, dalla autonomia dei comuni alla
Europa. Ecco allora che il senato delle autonomie (di tutte le autonomie, locali e funzionali) è un modo moderno di tutelare e di promuovere la libertà come motore della vita civile, economica e culturale; è il punto di arrivo (non di partenza) di una riforma dello stato basata sulla autonomia.
I giornaloni ci regalano, ancora oggi, la rappresentazione di una DC molle e priva di forza di
pensiero ed azione.
Non è così. Non è sempre stato così. Anzi, in questa congiuntura, che sembra mostrare un profilo costituente, occorre più che mai tornare al pensiero democristiano ed, in particolare, alla proposta di De Gasperi in ordine al “Senato delle regioni e degli interessi”. Se alla costituente avesse vinto la proposta degasperiana non avremmo avuto il senato fotocopia.
Ma il “senato degasperiano” non è solo una occasione persa; è anche un punto di riferimento per
il dibattito sulla riforma. De Gasperi, infatti, immaginava un senato capace di rappresentare le regioni non solo come istituzione, ma anche e soprattutto come realtà vitale con tutte le peculiarità sociali, economiche e soprattutto culturali (la battaglia del Sole 24 ore per un senato della cultura e delle competenze ha un illustre precedente ed un fondamento più articolato nella proposta di De Gasperi).
Se vogliamo restituire alla “camera alta” una dignità ed un ruolo fondamentale nel contesto
democratico, dobbiamo immaginare un senato garante della autonomia e quindi della libertà del
territorio e delle istituzioni che sul territorio operano (Miglio: “Non si dà territorio senza istituzioni
politiche”). Oggi, c’è chi sostiene (Bonomi) che il territorio abbia sostituito la fabbrica come luogo dei conflitti economici e sociali.
Dire territorio significa quindi far riferimento ad una realtà complessa dove gli attori economici e
sociali si incontrano e si scontrano “avendo i piedi per terra e la testa nel mondo” (Bonomi).
La rappresentanza del territorio è altra e diversa cosa dalla rappresentanza politico-partitica.
Nel territorio, infatti, vivono e si condensano autonome associazioni delle attività produttive, della
cultura, della vita sociale e dell’autogoverno locale che non possono essere ricondotti o
compressi nella vita politica.
Per la cultura democratico cristiana (che esprime la “cultura del limite”) la politica non è tutto e
non può pretendere di rappresentare tutta la complessa dinamica sociale.
Per questo De Gasperi (contro il mono cameralismo togliattiano) proponeva anche una
rappresentanza “altra” rispetto alla politica (e al senato di nomina regia). La rappresentanza democratica che sale dal basso poggia su due fondamenti: il territorio e la
politica. La rappresentanza del territorio complessivamente intesa (comuni, regioni, camere di
commercio, università, fondazioni bancarie) sale dal basso verso l’alto, ossia dal comune sino al
Senato federale o delle autonomie. La rappresentanza politica, invece, si struttura ed articola nelle assemblee elettive trovando il suo vertice nella Camera dei Deputati.
Il primato è della politica. Ma è più che mai necessario che la politica incontri dei limiti organici
in altre istituzioni rappresentative e che con queste si confronti e dialoghi sia nella legislazione che
nel governo.