La nomina del Presidente del Consiglio è un affare d’élite. La sfiducia verso il Popolo su un simile tema è scritta sulla Carta Costituzionale, c’è poco da fare.
Premessa: sono fra quelli che ritenevano auspicabile un’investitura di Renzi a Palazzo Chigi solo dopo aver vinto le elezioni come capolista del PD.
Fatta questa premessa, vanno chiariti alcuni aspetti di questa imminente investitura, perché va diffondendosi, come nel corso della recente crisi di governo che portò alla nomina di Mario Monti, la diceria secondo la quale il Popolo potrebbe, in qualche modo, eleggere il capo del Governo.
Diciamo subito chi ha messo in giro queste dicerie all’inizio. Si tratta del PDL, con la disonestà intellettuale che spesso lo ha contraddistinto.
Ricordate quando nel 2009 l’Avv. Pecorella, per difendere il lodo Alfano, cercò addirittura di sostenere che la costituzione formale, ossia quella scritta sulla carta, con il sangue, nel 1947, fosse stata superata da un diverso assetto formatosi nell’ordinamento e che la legge elettorale Calderoli (il Porcellum) avesse in sostanza “modificato l’identità costituzionale del premier”?
Quasi che una legge, che è atto subordinato alla Costituzione, possa con tale facilità derogarvi.
Anche oggi, del resto, dalla Sardegna, Berlusconi ha avuto la disonestà intellettuale di definirsi l’ultimo premier eletto dal Popolo.
Da dove nasce una simile mistificazione? Nasce dal porcellum, ma nel porcellum trova anche inequivoca risoluzione.
Qualche buona anima in Parlamento, infatti, ha ben pensato fosse opportuno introdurre, in quella stessa legge, una precisazione: fare salve le prerogative del Capo dello Stato nella nomina del Presidente del Consiglio.
Vediamo di che si tratta.
L’art. 5 della Legge Calderoli stabilisce che con il simbolo della lista elettorale “i partiti o i gruppi politici organizzati che si candidano a governare depositano anche il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica. I partiti o i gruppi politici organizzati tra loro collegati in coalizione che si candidano a governare depositano un unico programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come unico capo della coalizione”.
In altre parole, tutte le liste uniche e tutte le coalizioni di liste sono tenute ad indicare all’elettorato chi ci sia alla guida della campagna elettorale. Non chi sia candidato alla guida del paese.
Certo, è un passo avanti rispetto a quanto si prevedeva prima. Ma un passo avanti solo ed esclusivamente perché agevola, in sede di consultazioni, il Capo dello Stato, il quale ben potrebbe risparmiarsi di verificare il gradimento per il capolista da parte della coalizione che lo ha sostenuto.
A Costituzione vigente nient’altro.
Ed infatti, come dicevamo, è lo stesso art. 5 della Legge Calderoli a chiarire che “restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, secondo comma, della Costituzione”.
Quest’articolo afferma che la nomina del Presidente del Consiglio dei ministri spetta al Capo dello Stato.
Durante i lavori dell’assemblea costituente, il Relatore della Commissione designata per scrivere l’attuale art. 92, l’onorevole Mortati, spiegò molto bene quale sia il ruolo del Presidente della Repubblica con queste parole: “la Camera elettiva, o le Camere elettive, dovrebbero esprimere l’indirizzo politico che emerge dalle elezioni. Naturalmente, in quanto manchino le possibilità, i requisiti, i presupposti di fatto perché questo indirizzo politico si manifesti in modo esplicito — poiché, in altri termini, non è possibile fare come si fa in Inghilterra, dove la designazione del Governo emana direttamente o implicitamente dalle stesse elezioni — bisognerà pensare che questa valutazione della situazione politica quale emerge dalle elezioni e dai riflessi nelle assemblee legislative, sia fatta dal Capo dello Stato. Cioè il Capo dello Stato deve valutare quella che è la situazione politica in relazione alle elezioni e deve designare per la composizione del Governo la persona che si suppone più adatta ad esprimere questo indirizzo o gli indirizzi dominanti nei gruppi espressi dalle elezioni popolari”.
La cautela dei nostri padri costituenti, che oggi ci appare così anacronistica, è ben espressa in queste parole. La democrazia aveva portato il fascismo al potere. Non si poteva correre il rischio che la demagogia ed il facile populismo persuadessero di nuovo la popolazione a tal punto da mettere a repentaglio l’assetto democratico a fatica riconquistato.
La nomina del Presidente del Consiglio è quindi un affare d’élite. La sfiducia verso il Popolo su un simile tema è scritta sulla Carta Costituzionale, c’è poco da fare.
Le manovre di palazzo che avvengono all’insaputa dell’elettorato sono figlie della scarsa fiducia verso il Popolo nutrita dall’ideologia comunista che ha contribuito a scrivere la Carta Costituzionale.
Il contrappeso di una simile prerogativa lasciata al Capo dello Stato è naturalmente la fiducia che il premier designato è chiamato ad ottenere dal Parlamento.
In tal modo il Popolo è comunque chiamato a ratificare l’operato oscuro delle élite. Questo, nella forma, fa salva la democrazia.
Non è questa la sede per provare ad immaginare cosa avrebbe potuto essere la nostra Carta Costituzionale senza la parentesi buia del fascismo e le contraddizioni della resistenza.
Possiamo però immaginare in cosa possa cambiare oggi, a sessantacinque anni di distanza.
Partiamo dalla revisione del ruolo del Senato e del bicameralismo perfetto. Un primo, anacronistico meccanismo di contrappeso ormai inceppato che viene meno, nella speranza di rimuovere in fretta altre inutili zavorre che tengono il nostro futuro inchiodato a troppi anni addietro.