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Perché sono i gesti la vera parola di Papa Francesco

Pubblichiamo di seguito il testo integrale del saggio di Alessandro Gisotti, vice-caporedattore della Radio Vaticana, sul primo anno di pontificato di Papa Francesco, pubblicato dal Centro Tocqueville Acton.

“Hai visto cosa ha fatto Papa Francesco?”. Pigiato in un autobus nell’ora di punta, esperienza alla quale sono purtroppo abituati i pendolari romani, rimango molto colpito da questa domanda. Innanzitutto perché a rivolgerla è un ragazzo ad un suo coetaneo e poi perché si riferisce non a qualcosa detta, ma a qualcosa fatta dal Papa. Ora, si è abituati a sentire i ragazzi conversare sulla prodezza di un beniamino del calcio o sull’ultima “trovata” di una pop star, non sul gesto di un Pontefice. Questo scambio avveniva nei primi giorni di Pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Ben presto ci saremmo abituati ad aspettare che il Papa sintetizzasse con un’azione le sue parole, imprimendo così un evento nella memoria collettiva. Altrettanto velocemente, avremmo compreso che i suoi gesti, a volte sorprendenti, non sono mai fini a se stessi ma sono sempre in funzione del messaggio che Francesco vuole diffondere. Del resto, nell’era della riproducibilità illimitata di un’immagine attraverso i social network, questi gesti hanno fatto sì che quel messaggio arrivasse anche in “periferie esistenziali” altrimenti impenetrabili.

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Al traguardo del primo anno dall’elezione alla Cattedra di Pietro, si possono dunque “rileggere” alcuni gesti di Bergoglio-Francesco a partire da quel chinare il capo nel chiedere la benedizione del popolo con la quale il nuovo vescovo di Roma si è presentato urbi et orbi la sera del 13 marzo. In quel gesto c’è tutto l’amore del pastore per il suo gregge, quel “santo e fedele Popolo di Dio” come lo ama definire. Ma c’è anche la chiave di lettura per comprendere come Bergoglio “pensa” il ministero del vescovo, tanto più se della Sede di Pietro. Il pastore, per lui, non è un leader che guida in modo solitario chi lo segue. I Pastori, per Francesco, devono certo saper stare “davanti al gregge per indicare la strada”, ma “anche in mezzo al gregge per mantenerlo unito” e “dietro al gregge per evitare che qualcuno rimanga indietro e perché lo stesso gregge ha, per così dire, il fiuto nel trovare la strada”. Un “saper muoversi” che, in realtà, deve appartenere non solo ai vescovi ma agli stessi sacerdoti che “devono avere l’odore delle pecore”. Tanto è innamorato del suo gregge che, quando era arcivescovo di Buenos Aires, aveva affermato che “si può nominare il popolo soltanto se ci si impegna, se si partecipa. Più che una parola, è una chiamata, una con-vocazione a uscire da sé”. Papa Francesco, ha sottolineato un presule argentino, “ha un luccichio negli occhi quando usa la parola popolo”.

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E gli occhi, al primo Pontefice latinoamericano, brillavano di gioia e commozione anche il 24 luglio del 2013, mentre in preghiera, quasi rapito, guardava il volto della piccola statua della Madonna di Aparecida. Francesco, ha affermato il segretario del dicastero per la Vita Consacrata mons. Rodriguez Carballo, è “un Papa mariano” e si rivela tale “anche nei piccoli gesti”. Bergoglio, ha aggiunto il presule, sa che “la strada più corta per arrivare a Gesù è sempre Maria”. Non a caso la sua prima uscita in assoluto dal Vaticano è stata, il giorno dopo l’Elezione, per andare a rendere omaggio alla Vergine nella Basilica di Santa Maria Maggiore, luogo che ha visitato ben sette volte nei primi 12 mesi di Pontificato. Un gesto questo che, in patria, è stato immediatamente ricollegato alla sua devozione filiale per la Vergine di Lujan, custodita nel Santuario mariano più amato dagli argentini. Qui, rammenta il rettore José Daniel Blanchoud, il cardinale Bergoglio si recava con frequenza e amava confessare fino a notte fonda, aspettando i giovani pellegrini che arrivavano alle prime luci dell’alba. È inoltre noto che, da vescovo, Bergoglio ha introdotto in Argentina la devozione per “Maria che scioglie i nodi”, riprendendo un’immagine votiva “scoperta” quando, giovane gesuita, si trovava in Germania per completare gli studi di teologia. Per Papa Francesco, ha osservato il vaticanista Andrea Tornielli, la tradizionale pietà popolare, espressione “di quella fede dei semplici che il magistero deve tutelare”, è “un elemento importante per la nuova evangelizzazione”.

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Ma su cosa deve contare questo rinnovato slancio nell’annuncio del Vangelo? Innanzitutto su una “Chiesa in uscita”. Significativamente, della prima domenica da Pontefice di Bergoglio ricordiamo tutti proprio il gesto semplice e dirompente dell’uscita di Papa Francesco dalla parrocchia di Sant’Anna in Vaticano, dove aveva celebrato la Messa. Saltando ogni barriera e protocollo (e lì gli uomini della Gendarmeria Vaticana hanno capito che il loro lavoro sarebbe diventato molto impegnativo), il Vescovo di Roma è andato letteralmente ad abbracciare il suo popolo al di là del confine che separa la Città del Vaticano dalla Città Eterna. Un’immagine che ha quasi anticipato il tema della “cultura dell’incontro”, tra i pilastri di questo Pontificato. Il senso di quel gesto è stato come spiegato da Francesco nella prima udienza generale in Piazza San Pietro, il 27 marzo 2013, quando ha affermato che, per seguire Cristo, bisogna “uscire da se stessi”, “dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio”. Sei anni prima, ai tempi della Conferenza di Aparecida, il cardinale Bergoglio, intervistato da Stefania Falasca, aveva sintetizzato con efficacia: “Per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli si esce”.

QUARESIMA, SINODO E FINANZE VATICANE. ECCO L’AGENDA DI PAPA FRANCESCO

Questa uscita, d’altronde, ha una meta ben precisa: l’incontro con il prossimo, preferibilmente un “prossimo-lontano”. Un incontro che può essere perfino silenzioso, ma al tempo stesso ricco di significato e occasione di crescita relazionale. È quanto successo per esempio con un altro gesto sorprendente, ancora una volta nei primi giorni di ministero petrino di Bergoglio, quando il nuovo Papa ha impartito la sua benedizione in silenzio ai giornalisti di tutto il mondo ricevuti in Aula Paolo VI dopo il Conclave. “La potenza di questa benedizione silenziosa – ha osservato padre Antonio Spadaro – ha attraversato persino le barriere dei cuori giungendo a toccare chiunque proprio grazie alla creazione di un evento comunicativo che non ha lasciato fuori nessuno”. In effetti, come dimostrano gli Angelus e le Udienze Generali all’insegna del dialogo con i fedeli in Piazza San Pietro, la modalità comunicativa di Papa Francesco è sempre tesa a coinvolgere direttamente il destinatario del messaggio. Anzi, si può dire che per Bergoglio al centro, prima ancora del messaggio, ci sono le persone che comunicano, che si incontrano. Esemplificativo di questa comunicazione “circolare”, mai unidirezionale, è quanto successo all’Udienza Generale dell’11 settembre 2013, nell’Anno della Fede, quando il Papa ha letteralmente assegnato “un compito a casa” ai fedeli: cercare la data del proprio Battesimo. In questo modo, la catechesi sul primo dei Sacramenti si è fatta esperienza personale per ciascuno dei presenti e di quanti hanno seguito l’avvenimento attraverso i mass media.

DA PADRE GEORG A PAROLIN PER IL LIBRO DI PAPA FRANCESCO. LE FOTO DI PIZZI

In questo spirito di condivisione si comprende anche il “selfie” dell’anno, l’autoscatto che lo ha visto protagonista assieme a un gruppo di ragazzi della diocesi di Piacenza ricevuti in Vaticano e che, in brevissimo tempo, è diventato “virale” nella Rete. “Non c’è alcuna strategia di marketing dietro queste azioni di Francesco”, commenta Beppe Severgnini, che aggiunge: “I ragazzi, come dimostrano la grande accoglienza in Brasile e questa piccola immagine, hanno il radar per certe cose. Sanno subito chi s’interessa a loro e si comportano di conseguenza”. Di qui anche il successo “miracoloso” sui social network di un uomo che, molto onestamente, aveva ammesso solo pochi anni fa di non utilizzare Internet. “Bergoglio – osserva ancora il direttore di Civiltà Cattolica – ha una capacità di compenetrazione tra gesto e parola che colpisce, riesce a lanciare messaggi di grande autorevolezza senza far percepire alcuna distanza. È una sorta di paradosso comunicativo: tanto più basso è il piedistallo, tanto più autorevole risuona il messaggio”.

Questo binomio paradossale “umiltà-autorevolezza” ha avuto uno dei suoi momenti più alti, in questi primi dodici mesi di Pontificato, nella lavanda dei piedi dei giovani detenuti del carcere romano di Casal del Marmo. Gesto che ci ha letteralmente “fatto vedere e toccare” quella misericordia a cui Bergoglio si richiama così frequentemente, a partire dal suo primo Angelus del 17 marzo 2013 quando ha affermato che Dio, il “padre misericordioso mai si stanca di perdonarci” e così anche noi dobbiamo imparare “ad essere misericordiosi con tutti”. Come Karol Wojtyla, che ha istituto la Domenica della Divina Misericordia e proprio in questa festa verrà canonizzato quest’anno, anche Jorge Mario Bergoglio va visto con la lente della misericordia, iscritta nel motto episcopale miserando atque eligendo (“lo guardò con misericordia e lo scelse”). Una Chiesa misericordiosa è proprio il “sogno” di Francesco che, nella celebre intervista a La Civiltà Cattolica e alle altre riviste dei Gesuiti, ha affermato che “i ministri della Chiesa devono essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo”. Una misericordia fatta di gesti oltre che di parole, come fa il Signore che “accompagna” i discepoli di Emmaus nel loro cammino.

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Quando era a Buenos Aires, rammenta l’arcivescovo Victor Manuel Fernández, rettore dell’Università cattolica argentina, “ai preti ripeteva sempre di essere misericordiosi”. Una raccomandazione ripresa più volte nelle omelie mattutine a Casa Santa Marta, in particolare con l’esortazione ai sacerdoti a non fare del confessionale “una sala di tortura”, ma un luogo di perdono e riconciliazione. Significativa, al riguardo, è la risposta che Papa Francesco dà a Gian Guido Vecchi del Corriere della Sera, nella conferenza stampa in aereo di ritorno dalla Gmg di Rio de Janeiro. A proposito dell’ammissione dei divorziati risposati ai Sacramenti, osserva che “la misericordia è più grande di quel caso”. “Io – aggiunge – credo che questo sia il tempo della misericordia”, la Chiesa è madre “e deve andare su questa strada della misericordia. E trovare una misericordia per tutti”.

Proprio l’ottica della misericordia ci aiuta a mettere a fuoco la visita pastorale di Papa Francesco a Lampedusa, “quasi alla fine dell’Europa”. Una visita, quella dell’8 luglio scorso, contrassegnata da gesti e segni di fortissimo valore simbolico, a partire dalla corona di fiori gettata in mare a largo dell’isola per ricordare le migliaia di migranti che, cercando la speranza di una vita migliore, hanno trovato la morte. “Al rientro, sceso dalla barca – ha annotato Luigi Accattoli – Francesco si è voltato a guardare il mare: un’occhiata che richiamava, a chi ne era stato spettatore, lo sguardo che Papa Wojtyla rivolse all’Oceano dall’imbarco degli schiavi nell’isola di Gorèe (22 febbraio 1992). Da laggiù partivano nei secoli innumerevoli sventurati, qua ne arrivano oggi altrettanti”[12]. Il pastorale utilizzato per l’occasione – e così il calice, l’ambone, l’altare – è realizzato con il legno delle barche che solcano il mare di Lampedusa. Simboli, come la scelta delle letture e i paramenti viola, che vogliono sottolineare la dimensione penitenziale della celebrazione. La visita di Papa Francesco a Lampedusa ha un impatto fortissimo a livello internazionale, tanto che l’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, Antonio Guterres, definisce Bergoglio “il più autorevole testimonial della causa di chi fugge da guerre e persecuzioni e rischia la vita per arrivare su un continente indifferente se non ostile”. Quella visita non resta confinata nell’emozione, seppure intensa, di una giornata. Diviene impegno duraturo. E così, quando il 3 ottobre 2013 si verifica la più grave tragedia recente del Mediterraneo con quasi quattrocento vite spezzate, il Pontefice invia a Lampedusa il suo Elemosiniere, Konrad Krajewski. “È come se avessimo il Papa in persona qui accanto a noi – dicono i soccorritori – e la cosa ci conforta perché abbiamo la certezza di una vicinanza concreta e non di facciata”.

LE UDIENZE DI PAPA FRANCESCO. GUARDA LE FOTO

E particolarmente vicino, Papa Francesco, lo sentono gli “esclusi”, quelli trattati come “avanzi” dalla “cultura dello scarto”. “Non è possibile – scrive in Evangelii Gaudium – che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione”[15]. Ecco allora che il giorno del suo 77.mo compleanno, il primo da Vescovo di Roma, Jorge Bergoglio invita alla Messa di Santa Marta proprio tre clochard che vivono nelle vicinanze del Vaticano. È come vedere realizzata la profezia che “gli ultimi saranno i primi”. Non a caso, uno dei barboni salutando Francesco afferma scherzosamente (ma non troppo) che “vale la pena essere vagabondi perché si viene ricevuti dal Papa!”. Bergoglio-Francesco è come proteso spiritualmente e fisicamente verso i poveri, i deboli, i malati. Loro, sottolinea, “sono la carne sofferente di Cristo”. Che cosa intenda il Papa con questa definizione lo si capisce bene il 6 novembre 2013 quando, al termine dell’Udienza Generale, accarezza e bacia il volto sfigurato di Vinicio, un uomo affetto dal terribile morbo della neurofibromatosi. Le istantanee di questo momento, che fa rivivere nel XXI secolo il bacio di San Francesco al lebbroso, fanno subito il giro del mondo. Ancora una volta l’impatto di “un gesto senza parole” di Francesco è enorme. L’Istituto nazionale dei tumori di Milano “adotta” immediatamente la foto come esempio di prossimità verso chi è colpito da questa malattia deturpante. “Papa Francesco – dichiara il biologo cellulare Andrea Rasola – ha fatto quello che ciascuno di noi nel suo cuore vorrebbe fare, ma che in realtà non sempre riusciamo a fare. È un gesto meraviglioso”. Rasola è presidente dell’associazione Linfa Onlus, ma è anche padre di una bimba affetta da neurofibromatosi. Quando incontri persone affette da questa rara patologia, constata, “vorresti abbracciarle, fare il più semplice dei gesti di accoglienza”, ma “non è un gesto spontaneo: occorre fermarsi, pensarci, fare un atto di volontà. Papa Francesco lo ha fatto e questo gesto ci apre il cuore”.

Meno straordinario in sé, ma eclatante proprio per la sua normalità è stato il gesto di portare con sé la propria borsa sull’aereo che lo avrebbe condotto in Brasile per la Gmg. Immagine così evocativa che, sei mesi dopo, quella borsa nera è in mano anche al “Papa-Superman” del celebre murales dipinto in una viuzza di Borgo Pio, a due passi dal Vaticano. Per il semiologo Marco Belpoliti, “la borsa è il segno, non solo di un’indipendenza e autonomia di fatto raggiunta, e affermata, rispetto ai famigli della casa pontificia, ma anche di un Papa che si documenta e studia anche fuori della sua residenza, in viaggio”[17]. Il priore di Bose, Enzo Bianchi, invece, ritiene che è come se Francesco avesse detto “nessuno deve portare un peso al posto mio”. Con quella borsa in mano, infondo, è come se Bergoglio desse sostanza all’enunciazione “il vero potere è il servizio”, contenuta nell’omelia della Messa di inizio del ministero petrino. La novità è tale che si versano fiumi d’inchiostro sul presunto contenuto della “misteriosa ventiquattrore” di Papa Francesco. Una curiosità che stupisce Bergoglio. “Non c’era la chiave della bomba atomica!”, commenta ironico nella già citata conferenza stampa in aereo, “La portavo perché sempre ho fatto così”. E alla domanda di Andrea Tornielli su cosa ci fosse dentro, risponde disarmante: “C’è il rasoio, c’è il breviario, c’è l’agenda, c’è un libro da leggere … ne ho portato uno su Santa Teresina di cui io sono devoto. Sono andato sempre con la borsa quando viaggio: è normale. Dobbiamo essere normali”. Una normalità “che fa scandalo”, scrive Marco Garzonio, e che al tempo stesso è “l’autentico segreto di Jorge Mario Bergoglio”, ieri a Buenos Aires oggi alla Cattedra di Pietro.

ECCO IL VESCOVO IDEALE SECONDO PAPA FRANCESCO

Un capitolo a parte, nel mosaico dei gesti del primo anno di Francesco, lo merita senz’altro l’inedita convivenza con il Papa emerito Benedetto. Al momento della Rinuncia e ancor più dell’Elezione erano in molti a chiedersi come sarebbe stata possibile la convivenza tra due Papi. Un “incantesimo” di dubbi e timori che si è spezzato con il primo commuovente, fraterno abbraccio tra i due Successori di Pietro a Castel Gandolfo, il 23 marzo 2013. A dar forma visibile a ciò che, fino a pochi giorni prima, nessuno avrebbe nemmeno osato immaginare – riferisce la Radio Vaticana – “è un minuto di sequenze televisive, girate dal Centro Televisivo Vaticano, scritte con l’inchiostro immateriale della tv, ma poderose ed emozionanti come nemmeno la regia più ispirata avrebbe saputo escogitare”. Dopo quella “prima assoluta” nella storia della Chiesa, Benedetto e Francesco si incontrano altre volte, ora a Casa Santa Marta ora al Monastero Mater Ecclesiae. Il 22 febbraio, poi, assistiamo ad un nuovo inedito: il Papa emerito partecipa al Concistoro per la creazione dei nuovi cardinali nella Basilica di San Pietro. Francesco gli va incontro e Benedetto XVI, con grande umiltà, si toglie lo zucchetto in segno di riverenza. Poi l’abbraccio che fa ritornare alla mente e al cuore quel “siamo fratelli” quasi sussurrato da Papa Bergoglio a Joseph Ratzinger nel loro primo storico a tu per tu. Un incontro a due o meglio a tre: Francesco, Benedetto XVI e lo Spirito Santo, vero suggeritore di questi gesti.


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