Devo dire che l’appello di Fabio Scacciavillani ed altri firmatari apparso di recente su Linkiesta mi ha lasciato molto perplesso.
A parte i toni, che ho trovato piuttosto irritanti, sono i contenuti ed i modi proposti per il cambiamento che più mi danno da pensare.
A modesto avviso di chi scrive, toni, metodi e contenuti tradiscono quel pedagogismo figlio della rivoluzione francese che, esercitato in tal modo, risulta solo controproducente.
In questo appello i firmatari cercano anzitutto di scuotere le menti, sbattendo in faccia al lettore la dura realtà di un paese ancora culturalmente arretrato e, secondo gli standard internazionali, in larga parte analfabeta (brutal politik è l’efficace espressione usata).
Alla base della ricetta proposta vi sono alcune considerazioni di fondo che però sono solo parzialmente condivisibili.
Anzitutto, non condivido l’idea che l’elettore italiano sia un conformista che bestemmia contro la casta e poi la vota. Il primo partito oggi è infatti quello dell’astensione (circa il 25% dell’elettorato alle ultime elezioni politiche, quasi la metà alle recenti elezioni regionali sarde).
Non condivido nemmeno l’idea che il carrozziere dell’esempio dell’appello non sia in grado di comprendere o ricordare cosa sia stato detto a Ballarò la sera prima. Il problema è forse che quel carrozziere nemmeno guarda Ballarò (e come dargli torto?).
Direi, quindi, che la sindrome di Stoccolma di cui sarebbe vittima l’elettore oggi va quantomeno affievolendosi. Quello che si registra, invece, è un serio problema di crescente indifferenza in chi sta meglio e di montante insofferenza in chi sta peggio.
Per questo non credo che l’azzeramento della Costituzione vigente proposto dai firmatari possa rappresentare una soluzione.
Non credo nemmeno che il problema sia essere passati ad un sistema maggioritario nell’ambito di un quadro costituzionale concepito per essere proporzionale e che quindi chi vince prenda tutto (Presidente della Repubblica, Governo, autorità indipendenti, etc.), come si sostiene nell’appello.
A parte i limiti dell’attuale sistema maggioritario (che poi veramente maggioritario non è perché il porcellum era un sistema proporzionale), che dà origine a maggioranze comunque diverse nelle due Camere, ricordiamoci che per la Carta Costituzionale il Presidente della Repubblica di regola viene eletto da una maggioranza molto ampia (due terzi del Parlamento in seduta comune) e che anche la maggioranza assoluta bastevole dopo il terzo scrutinio non consente comunque di lasciare la nomina alla assoluta discrezione di chi abbia vinto le elezioni.
Che una maggioranza esprima un Governo mi sembra invece il minimo in una democrazia parlamentare, per cui non vedo il problema lamentato.
Presidente e Vice Presidente del Garante della Privacy sono stati rispettivamente nominati in quota PD e PDL.
All’AGCOM le nomine se le sono spartite PDL,UDC e PD.
L’opposizione ha diritto di nominare il presidente del Comitato Parlamentare sulla sicurezza della Repubblica, ossia l’organo che esercita il controllo sui servizi segreti.
Della lottizzazione multipartitica della Rai sappiamo ormai tutto.
Se Berlusconi ha avuto un Presidente della Repubblica che gli ha fatto da argine è perché una regola intelligente come l’art. 85 di questa Costituzione, che si dice adesso non avere contrappesi, sfasa la durata della legislatura e quella della carica del Capo dello Stato.
A detta di chi scrive, quindi, il problema non è l’assenza di contrappesi nella Costituzione, che invece sono presenti ed in misura forse eccessiva (si pensi per tutti alla presenza di due Camere con pari funzioni, ma maggioranze votate su basi diverse, nazionale la Camere e regionale il Senato).
Non si può neppure dire che il sistema incancrenito che conosciamo oggi sia dipeso dalla Costituzione o che sia dipeso totalmente da questa. Certo, la struttura istituzionale disegnata dai costituenti non ha agevolato il cambiamento. Ma il problema sta purtroppo in qualcosa di atavico che viene prima della Carta.
Per il resto, è vero che i principi fondanti della nostra Costituzione odorano troppo di socialismo e rivoluzione francese.
Ma rifondare la Carta sulla base di principi di libertà formulati nel modo in cui lo fanno i firmatari dell’appello (si tratta del primo e del quarto caposaldo e del nuovo art. 1 che trovate nell’articolo) ha molto di anarcoliberalismo e poco di liberaldemocrazia.
Come diceva l’immenso Vincenzo Cuoco nel Saggio Storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799, “il mal, che producono le idee troppo astratte di libertà, è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire. La libertà è un bene, perché produce molti altri beni, quali sono la sicurezza, l’agiata sussistenza, la popolazione, la moderazione dei tributi, l’accrescimento dell’industria e tanti altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertà. Un uomo, il quale, senza procurare ad un popolo tali vantaggi, venisse a comandargli di amare la libertà, rassomiglierebbe l’Alcibiade di Marmontel, il quale voleva esser amato per se stesso”.
“L’uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt’i suoi affetti, giunti all’estremo, s’indeboliscono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l’uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà. Or che altro avea fatto Robespierre, spingendo all’estremo il senso della libertà, se non che accelerarne il cambiamento?”, si chiedeva ancora il giurista napoletano.
Infine, da rifiutare fermamente l’idea che la nuova Carta possa essere scritta davanti al PC dalla moltitudine del Popolo usando piattaforme on line assai poco adeguate per una discussione così elevata.
Ciò che fu eccezionale nella scrittura della nostra Costituzione, nel bene e nel male, fu l’elevatissimo dibattito che si svolse in seno all’assemblea costituente. E tale dibattito, c’è poco da fare, fu elevato anzitutto per la personalità ed il profilo intellettuale di chi vi partecipò.
Scrivere una Costituzione non è da tutti.
Non nascondiamoci dietro ad un dito. La democrazia liquida rischia di sfociare nell’anarchia e non si presta certo a far emergere la posizione migliore, quella di cui c’è bisogno.
Per deliberare in merito occorre un grado di conoscenza, competenza e preparazione che non possiamo aspettarci dal Popolo, per le stesse ragioni indicate con tanta irritante aggressività nell’appello.
Ciò che fa grande una deliberazione è l’intensità del dibattito che vi sta dietro e la compresenza fisica dei deliberanti è necessaria per creare quella giusta tensione dialettica che solo uno scontro di sguardi può mantenere viva.
Non possiamo aspettarci nulla di simile da Liquid Feedback, anche se vi partecipassero le persone più colte e preparate in materia. La distanza enorme che uno strumento del genere crea fra gli utenti è alquanto controproducente.
Per dirla con il premier Renzi, uno scambio di vedute su un social network non vale più di un abbraccio (GUARDA IL VIDEO).
E chi deve scrivere le Costituzioni allora? Le élite, purtroppo.
Invero, una certa dose di pedagogismo elitario non fa male. Anzi, rimane condizione necessaria di un cambiamento.
Ma ciò deve avvenire entro certi limiti per non sortire l’effetto opposto (il c.d. paradosso giacobino di cui il movimento di Grillo pare spesso vittima).
Per stare entro certi limiti, l’insegnamento elitario deve avvenire con certe modalità.
Quale la soluzione allora?
Per chi scrive, l’unica cosa possibile è fare strategia sulle regole.
Immaginate due estremi su una linea, una linea che è diventata molto lunga e nel cui mezzo vi sta, ancora una volta, la virtù, ossia la migliore soluzione possibile.
Ad un estremo vi è l’immensa mole di regole di cui è composto il nostro ordinamento. Regole vuote, contraddittorie e poco chiare, che vanno aumentando di giorno in giorno, accrescendo di conseguenza ed in maniera più che proporzionale lo spazio per eluderle.
Ancora Vincenzo Cuoco ci ricorda che “idee tanto astratte portano seco loro due inconvenienti: sono più facili ad eludersi dai scellerati, sono più facili ad adattarsi a tutt’i capricci de’ potenti; i turbolenti e faziosi vi trovano sempre di che sostenere le loro pretensioni le più strane, e gli uomini dabbene non ne ricevono veruna protezione. Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà convinto”.
All’altro estremo della linea vi è lo scarso senso civico del nostro Popolo, che va diminuendo di giorno in giorno, causa anche quell’arretratezza culturale efficacemente descritta dai redattori dell’appello.
Per citare Leopardi, come fanno i firmatari, all’Italia non manca una costituzione, manca una società.
Quindi, da una parte le troppe regole, dall’altra la scarsa (e conseguente) propensione a rispettarle.
Se vogliamo possiamo anche immaginare un grafico, che chiameremo grafico della nomocrazia (termine con il quale si indica la sovranità delle leggi, la rule of law dei paesi anglosassoni), che registri sull’asse verticale il numero crescente di norme e su quello orrizontale il grado di conformazione alle stesse.
La curva relativa avrà lo stesso andamento inversamente proporzionale della curva della domanda in economia. Tanto più cresce il numero di norme, tanto meno cresce il grado di rispetto delle stesse che ci si può attendere.
Ciò che dobbiamo fare è, giorno per giorno, da una parte ridurre e razionalizzare quella mole di regole e, dall’altra, aumentare il senso civico della popolazione, tentando in tal modo di ridurre la distanza fra i due estremi di questa linea immaginaria.
Dell’eccesso di regole come causa di tutti i mali della Nazione se ne parla almeno dai primi anni ’80 (LEGGI QUI).
Da allora diversi sono stati i tentativi per porvi rimedio, ma questi tentativi hanno tutti scontato il difetto di operare sulle regole già esistenti (testi unici, abrogazioni, raccolte organiche), senza arginarne la produzione di nuove.
Quanto al senso civico, dobbiamo ripartire dalla scuola e dall’università. Ma non possiamo limitarci a trattare l’educazione civica come se fosse una materia qualsiasi, annoiando così i nostri poveri studenti.
L’educazione civica e così il rispetto delle regole vanno spiegati per l’utilità che portano a ciascuno di noi. In altre parole, in questo esercizio pedagogico non dovremo commettere l’errore di insegnare tale rispetto in quanto fine a sé stesso. Ancora Vincenzo Cuoco ci ricorda che la libertà “è un sentimento e non un’idea; si fa provare coi fatti, non si dimostra colle parole”. In questo esercizio dovremo mostrare in concreto l’utilità che a ciascuno di noi può derivare dalla conformazione alle leggi.
Si obietterà che una simile utilità sussiste solo, però, se tutti si conformano, per cui nessuno farà lo sforzo di mettersi in gioco per primo. Vero. Ed è per questo che una simile campagna di legalità non può che partire da un élite minoritaria. Vincenzo Cuoco diceva che “coloro che dirigono una rivoluzione sono sempre pochi di numero ed hanno più idee degli altri, perché veggono più mali e comprendono più beni”.
Semplicemente, l’élite modernizzante dovrà sempre tenere a mente che ciò che la guida nella sua missione non è un’idea astratta di bene supremo alla francese, bensì un’utilità molto concreta all’inglese.
Nel 2010 Roger Abravanel e Luca D’Agense hanno pubblicato un bellissimo saggio intitolato “Regole”, nel quale si spiegava molto bene come solo una società “vigile” e critica possa innescare un “circolo virtuoso delle regole”, fatto di verifiche ed aggiustamenti in grado nel tempo di divenire automatici (metodo per prove ed errori, come suggeriscono i due autori).
Perché una società sia vigile e critica ci vuole consapevolezza e per essere consapevoli si deve essere dotati di strumenti adeguati.
La prima consapevolezza da infondere è che le regole vanno rispettate nel nostro stesso interesse, perché il loro rispetto è fonte di libertà.
Da dove si comincia? Dalle strisce pedonali. Dalle code agli uffici postali. Dalla cortesia e dal riguardo, appuntandoci simbolicamente sul petto il distintivo del rispetto, degli altri e delle regole, anche quelle sbagliate.
I firmatari dell’appello auspicano una nuova rivoluzione che veda nella cancellazione della nostra imperfetta Costituzione il suo momento di deflagrazione.
Ma oggi non c’è bisogno di una tale rivoluzione, bensì di una controrivoluzione che, per usare le parole di De Maistre, acuto critico della rivoluzione francese, non deve rappresentare una rivoluzione in senso contrario, bensì il contrario di una rivoluzione.
La storia d’Italia ci insegna questo. Il Popolo è piuttosto freddo ed indifferente ai cambiamenti epocali in stile rivoluzione francese. D’indole il Popolo italiano non è rivoluzionario.
Non si cada però nell’errore di sostenere che una controrivoluzione costituisca un esercizio sostanzialmente conservatore.
Nella storia moderna per molti sono state controrivoluzioni anche quella ungherese del 1956 e il c.d. Autunno delle Nazioni del 1989, che portò anche alla caduta del muro di Berlino.
Insomma, nella storia moderna la controrivoluzione costituisce uno strumento per conseguire maggiore libertà e benessere.
Oggi non servono, quindi, rivoluzionari, ma controrivoluzionari, ossia soggetti riformatori.
Per Vincenzo Cuoco si trattava di due figure molto diverse. “Il talento del riformatore”, diceva il giurista napoletano, “è allora quello di rompere i lacci della dipendenza, di conoscer le persone egualmente che le cose, di far parlare il rispetto, l’amicizia, l’ascendente che taluno, o bene o male, gode talora su di una popolazione”.
Parallelamente riformiamo la Carta, ci mancherebbe. Ma non pensiamo che nella nostra Costituzione stia la fonte di tutti i mali dell’Italia.