L’intervista che l’economista Mario Baldassarri ha rilasciato a Italia Oggi è un esempio da manuale di pensiero costruttivo. Non si limita a denunciare gli errori del passato, precisando quanto ogni errore politico è costato all’Italia in maggiore debito, ma indica anche le soluzioni possibili. Tra queste, l’abolizione delle Regioni (e non solo delle Province) meriterebbe di trovare un ampio consenso politico per imporsi come una delle riforme più urgenti da fare per almeno due ragioni.
LA PRIMA RAGIONE
Abolire le Regioni consentirebbe un risparmio davvero robusto. I cento e passa miliardi di spesa sanitaria e i 17 miliardi di contributi a fondo perduto che oggi sono gestiti da 20 diversi centri di spesa regionali, una volta ricondotti sotto un unico centro statale si ridurrebbero di colpo, altro che spending review! E con la stessa mossa finirebbero gli sprechi e le scandalose spese pazze dei consiglieri regionali stile Batman-Fiorito.
LA SECONDA
Si metterebbe fine alla concorrenza dei poteri tra Stato e Regioni, che ha provocato solo guai. L’annunciata revisione del Titolo Quinto della Costituzione, che regola i poteri locali, potrebbe essere l’occasione giusta. Il premier Matteo Renzi ne ha parlato finora come di una riforma necessaria per porre rimedio alla confusione dei poteri tra Stato e Regioni introdotta nel 2001 da una sciagurata riforma pseudo-federalista firmata dall’allora ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini (governo Amato). La concorrenza dei poteri tra Stato e Regioni non ha prodotto nessun federalismo,bensì migliaia di ricorsi alla Corte costituzionale che hanno paralizzato di fatto la realizzazione di qualsiasi piano di opere pubbliche, piccole o grandi che fossero. La ricaduta è stata a dir poco nefasta soprattutto sulla politica energetica, che di fatto è stata cancellata dall’agenda di tutti i governi degli ultimi 13 anni.
IL SAGGIO DI GIUSEPPE RECCHI
Su questo scenario interviene con analisi e proposte interessanti, il saggio che il presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi, ha dedicato alle nuove energie. Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti hanno compiuto con lo shale gas un’autentica rivoluzione energetica, che li ha portati ad essere tra i primi produttori al mondo di gas e di petrolio, e a un passo dall’autosufficienza energetica. Il basso prezzo dell’energia ha altresì consentito di rimettere in marcia alcuni settori manifatturieri Usa che sembravano defunti, e dato così una spinta decisiva alla ripresa economica americana dopo la crisi finanziaria del 2008. Tra il 2005 e il 2012 il prezzo del gas è diminuito del 54 per cento negli Stati Uniti, mentre è aumentato del 64 per cento in Europa. Di riflesso, i prezzi dell’energia elettrica per le industrie, che in Europa nel 1990 erano superiori del 50 per cento a quelli Usa, nel 2012 li superavano del 120 per cento. Di riflesso, mentre l’industria chimica in Europa fa fatica a competere, negli Usa si investono circa cento miliardi di dollari in nuova capacità produttiva. E, giusto per fare un esempio, la carrozzeria in fibra di carbonio della nuova auto elettrica della Bmw, la i3, sarà prodotta a Moses Lake, nello Stato di Washington, e non a Monaco o a Lipsia.
IL FIASCO DELLA POLITICA DEL “20-20-20”
Messa a confronto con la rivoluzione dello shale gas, l’Europa dei burocrati di Bruxelles ha fatto fiasco con la politica del «20-20-20», e l’Italia peggio di tutti gli altri Paesi europei. La nostra dipendenza dal gas d’importazione è totale. Le fonti di approvvigionamento sono quattro: la Russia che ci dà il 28%, il Mare del Nord con il 14%, la Libia con il 10% e l’Algeria con il 32%. Il rimanente 16% lo importiamo via nave come gas liquefatto da diversi Paesi, Qatar in testa, e trasformato pronto all’uso nei rigassificatori di Panigaglia e Rovigo. Vista l’instabilità politica di almeno due Paesi dai quali importiamo con i gasdotti, servirebbero altri rigassificatori. Ma le opposizioni ambientaliste, unite alla confusione dei poteri tra Stato e Regioni, ne ha impedito la costruzione. L’esempio più eloquente è il rigassificatore progettato a Brindisi dagli inglesi della British Gas, che dopo undici anni di intoppi burocratici e di trattative politiche a vuoto con Nichi Vendola hanno gettato la spugna.
LA RIVOLUZIONE DELLO SHALE GAS IN ITALIA
Sorte identica hanno avuto i tentativi di esportare anche da noi la rivoluzione dello shale gas. L’opposizione degli ambientalisti e la sindrome Nimby (Not in my backyard, non nel mio giardino) hanno bloccato tutti, o quasi tutti, i progetti di sfruttamento del gas e del petrolio che si trovano nel sottosuolo nazionale. «Se adottassimo un approccio simile a quello di Inghilterra, Olanda e Norvegia», scrive Recchi, «potremmo raddoppiare la produzione e soddisfare circa il 20 per cento del consumo nazionale. Oltre a significare un abbattimento dei costi di approvvigionamento all’estero di quasi dieci miliardi di euro, generare occupazione e mobilitare le imprese dell’indotto, ciò porterebbe nelle casse dello Stato circa due miliardi di euro all’anno in royalty per diritti minerari». Insomma, provare anche da noi la rivoluzione dello shale gas non solo non costerebbe, ma farebbe guadagnare soldi sia alle imprese che allo Stato, creando nuovi posti di lavoro. Ma il primo a dubitare che ciò possa avvenire, è proprio il presidente dell’Eni. Un discorso interessato, il suo? Lo stesso Recchi non lo nega, ma precisa che l’Italia ormai conta ben poco sui conti del suo gruppo, visto che «l’Eni realizza all’estero circa l’85 % del margine lordo». Semmai, la sua analisi dovrebbe interessare a chi, come Matteo Renzi, ha la responsabilità del governo, ma nel suo programma non ha mai pronunciato la parola energia.