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Viaggio in Italia: lavorare (per) meno, lavorare tutti

Schiacciata nella morsa degli opposti automatismi, e con un settore bancario sempre più sotto stress, l’Italia è costretta ad affrontare una volta per tutte la radice di tutti i suoi mali che, secondo la Commissione Ue, si può declinare il due paroline: produttività stagnante.

Prima di addentrarci nel significato recondito di questa semplice espressione, vale la pena riportare la diagnosi di Bruxelles. Non tanto perché ci si debba convincere che sia vera. Ma perché serve a capire come ci vedono gli altri e perché ci vedono così.

“La produttività stagnante – scrive la Commissione – è alla radice della perdita di competitività esterna e del peso sulla sostenibilità dell’alto debito pubblico. Ridurre simultaneamente il debito pubblico e migliorare la competitività esterna è molto sfidante perché, mentre la moderazione dei salari nominali può aiutare a migliorare il costo della competitività a breve termine, allo stesso tempo può pesare sulle dinamiche del debito del paese. Quindi una correzione durevole degli squilibri italiani e un aumento della resilienza dell’ambiente economico dipendono dall’evoluzione della crescita della produttività”.

Eccola la cura: aumentare la produttività.

Ma che significa?

Tento un’interpretazione autentica, al lordo degli inevitabili fraintendimenti. Dice, la Commissione, che moderando i salari nominali, ossia diminuendoli o consentendo di farli crescere poco, si può aumentare la competitività esterna. La famosa medicina tedesca. Però quest’automatismo porta con sé lo svantaggio che salari più bassi hanno un effetto deprimente sia sulle entrate fiscali (lo stato incassa meno imposte dirette) che sulla domanda interna (lo stato incassa meno imposte indirette), e, di conseguenza, sulla crescita. Il che aumenta il peso relativo del debito.

L’ennesimo opposto automatismo.

Perciò se pure va bene una certa moderazione salariale, è l’aumento del prodotto (quindi della produttività per risorsa impegnata) che bisogna perseguire, pure a parità delle attuali retribuzioni. Ma è ovvio che se io produco di più allo stesso costo di prima, significa che in pratica è diminuito il salario reale.

Ecco: aumentare la produttività si può tradurre con l’invito a diminuire i salari reali, prima ancora che quelli nominali. Una medicina tedesca in versione italiana. Così facendo aumentiamo la competitività esterna, e quindi favoriamo l’export, senza azzoppare definitivamente la domanda interna.

Ricordate il vecchio slogan lavorare meno lavorare tutti? Bene, la versione attuale è lavorare per meno e lavorare tutti.

Lavoriamo troppo poco, insomma. E per di più in un contesto poco amichevole per il business, vessato da burocrazie, governative e giudiziarie, che fanno assomigliare alla fatiche di Ercole portare a casa qualche risultato. Per tacere della scuola, che sforna capitale umano (quando ci riesce) poco adatto alla competizione globale.

Ora, solo chi abita negli aerei spazi di Bruxelles può credere che sia possibile riformare in tempo ragionevole la burocrazia, la giustizia e la scuola in Italia. Rimediare a guasti che si sono sedimentati negli ultimi quarant’anni richiederebbe ben altro sforzo e ben altra caparbietà di quelli attualmente disponibili sul mercato della politica.

Perciò ai nostri governanti non resta che prendere il toro per le corna e dire la cosa più semplice: dobbiamo lavorare di più guadagnando, se va bene, gli stessi soldi di adesso. Chi almeno un lavoro ce l’ha. Per tutti gli altri, rimane la speranza di un bel minjob all’italiana.

Semplifico un po’, ma il succo è questo.

Se guardiamo ai dati forniti dal rapporto di Bruxelles l’analisi si approfondisce ma il senso non muta.

“La competitività esterna dell’Italia – spiegano – è stata ostacolta dalla crescita del costo unitario del lavoro che ha superato quella degli altri paesi europei. Nel periodo 1999-2012 l’ULC (unit labour cost) è cresciuto del 2,4% l’anno, sopra la media dell’euro-area dell’1,7%. L’incremento dell’ULC è stato guidato dal calo della produttività mentre i salari nominali per addetto sono cresciuti in linea con il resto dell’eurozona”.

Detto in altre parole, il calo di produttività ha fatto aumentare il valore reale del costo del lavoro, mentre il valore nominale cresceva in linea con il resto dell’eurozona. Quindi ci hanno perso tutti: sia gli imprenditori che i lavoratori.

L’analisi si approfondisce se guardiamo all’andamento del tasso effettivo di cambio (REER, real effective exchange rate) basato sul confronti fra i prezzi dei partner e sul confronto fra il valore nominale dell’ULC.

I grafici mostrano che il REER calcolato sui valori nominali dell’ULC vede per l’Italia una crescita costante. Fatto 100 il valore del 1999 il REER è arrivato a sfiorare 120 nel 2009 per poi ripiegare verso 115 dal 2011 in poi. Al contrario il REER tedesco è sceso a 90. Quindi è come se noi avessimo rivalutato il costo del lavoro rispetto alla Germania e la Germania svalutato rispetto a noi.

Se andiamo a vedere il REER basato sui prezzi alla produzione, la situazione è appena un po’ più equilibrata, ma dice molto su quello che è successo dal 2001 in poi. L’indice sul REER italiano, che quotava 100 nel 1999 è sceso a 90 nel 2000, mentre quello tedesco arrivara a 85, e ha seguito l’andamento di quello tedesca, in lieve ripresa dal 2002 in poi, fino a quando le curve non hanno iniziato a separarsi. A ottobre 2013, fra l’indice italiano e quello tedesco c’è una differenza di una decina di punti a nostro (s)favore (nel senso che è più alto il REER italiano). Quindi anche l’analisi del tasso di cambio reale basato sui prezzi mostra che l’Italia ha rivalutato e la Germania svalutato.

Nell’analisi della Commissione tale andamento contrario alla logica (un paese in surplus dovrebbe rivalutare non svalutare il cambio reale) deriva proprio dal calo della produttività, che in fatti in Italia è crollata (1999=100, 2011=95), mentre in Germania è aumentata (1999=100, 2011=110). Ma sarebbe interessante chiedersi se il calo della produttività non sia stato determinato proprio dalla rivalutazione reale piuttosto che il contrario.

Questa domanda non appare fra le riflessioni della commissione. Forse perché somiglia alla celebre disputa sull’uovo e la gallina. Epperò è determinante, giunti a questo punto del viaggio.

Provo a riformulare la domanda: se non fossimo entrati nell’euro, negli anni ’90, la nostra produttività avrebbe subito lo stesso crollo che ha subito?

Ovviamente non lo sapremo mai. Contentiamoci di tenere a mente la domanda che quelli di Bruxelles mai avrebbero potuto fare per ragioni di bottega.

Se queste sono le premesse. La conclusione non può che essere quella iniziale: bisogna stimolarla, questa benedetta produttività stagnante.

A questo punto dovrebbe essere pure chiaro come.

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