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Il Giappone quantiqualitativo dopo un anno di diluvio monetario

Moriremo tutti giapponesi, sembra di capire, e non dovremmo neanche lamentarci, visto che rischiamo pure di morire cinesi.

Questo pensiero mi sorge come un fungo dopo un nubifragio quando leggo la responsabile del Fmi Lagarde (“China’s Next Transformation: the Key Steps Forward”) dire che “nelle economie avanzate, e particolarmente nell’euro area, si profila il rischio di una bassa inflazione prolungata che ha bisogno di essere appropriatamente orientato, anche attraverso l’uso di politiche monetarie non convenzionali, se necessario”.

E allora mi ritorna in mente, bello com’è, il famoso brocardo di Mario Draghi “Faremo tutto ciò che è necessario per salvare l’euro”. E siccome una delle poche certezze che ho è che due più due fa quattro (al netto di diverse ipotesi aritmetiche), inizio a guardare inevitabilmente alla patria delle misure non convenzionali: il Giappone.

D’altronde se l’eurozona rischia un prolungato periodo di bassa inflazione, per tacere dell’attuale deflazione che interessa i PIIGS, chi meglio dell’ormai ventenne Giappone deflazionario può essere una fonte d’ispirazione?

Di fronte alla BoJ, la Fed e la BoE sono modeste dilettanti in fondo. Le banche anglosassoni solo nell’ultimo quinquennio hanno dovuto alzare un po’ l’asticella. La banca centrale giapponese, al contrario, lo fa da un ventennio, e di recente ha anche creato un neologismo: il quantitative&qualitative easing, laddove le banche americane e inglesi ancora si incaponiscono col quantitative easing “semplice”.

Altrove ho già spiegato come funzioni il modello di politica monetaria immaginato dai samurai giapponesi. Qui provo a darvi qualche numero sulla sua efficacia prendendo a prestito da un intervento di Kukuo Iwata, vice governatore della BoJ all’International centre for the study of east asian development del 24 marzo scorso.

Ma prima vi regalo una splendida sintesi della situazione giapponese, così come esemplificata sempre dalla Lagarde: “In Giappone gli investimenti privati e le esportazioni sono aumentati grazie all’Abenomics (il presidente giapponese che ha ispirato la politica monetaria della BoJ, ndr), ma per sostenere la crescita servono un piano fiscale di medio termine e riforme strutturali”.

Capito l’antifona?

Ma cosa ci dicono le cronache qualiquantitative giapponesi?

E’ passato quasi un anno da quando la BoJ decise di varare il suo QQE. Per non ricordasse i dettagli, faccio un breve ripasso. Il giochetto si basa su due pilastri: il primo pilastro prevede il target d’inflazione fissato dalla BoJ (un puro atto di fede perciò) al 2% da raggiungere nel più breve tempo possibile, con un orizzonte di circa due anni. Il secondo pilastro è costituito dagli strumenti attraverso i quali tale target (uguale a quello della Bce, peraltro) dovrà essere raggiunto.

Il primo passo è aumentare la base monetaria al passo annuale di 60-70 trilioni di yen tramite acquisti di bond pubblici (JGBs). E questo è l’aspetto quantitativo.

Lato qualità, la sfida è cambiare la propensione al rischio del popolo giapponese, notoriamente prudente e vocato all’acquisto di titoli di stato. La BoJ dà l’esempio comprando asset più rischiosi, in particolare titoli di stato anche quarantennali, quote di ETF e JREITs, ossia quote di fondi immobiliari.

Aumentando la base monetaria e acquistando massicciamente asset la BoJ pensa perciò di far scendere il tasso nominale, già al lumicino. Se al ribasso del tasso nominale si affianca una crescita dell’inflazione del 2% “garantita” sempre dalla BoJ, ecco che il tasso di interesse reale (tasso nominale-inflazione) diventa negativo, e pure parecchio. Ciò dovrebbe incoraggiare anche i timidi a prendere a prestito e quindi spendere. Dovrebbe pompare, insomma, la domanda interna per consumi e investimenti, compiendo il miracolo della ripresa moderatamente inflazionaria, che pare sia il Santo Graal dell’attuale mainstream economico.

Vabbé, questo è il piano.

Ma come sta andando?

Cominciamo dall’osservare i tassi, che come abbiamo visto sono la variabile fondamentale. Il periodo preso come riferimento è quello fra gennaio 2013 e gennaio 2014. All’inzio il tasso di inflazione era moderatamente positivo per circa lo 0,7% (a gennaio 2012 era negativo). Il tasso di interesse nominale era poco sopra lo 0%, quindi il tasso reale era intorno al -0,5%. Un anno dopo l’inflazione era intorno all’1,5%, il tasso nominale sostanzialmente immutato, il tasso reale intorno al -1,4%.

L’obbiettivo, insomma, sembra essere raggiunto: il denaro in Giappone è più che gratis: in pratica guadagni prendendo a prestito.

Che effetto ha avuto tutto ciò sugli asset e sulla valuta?

I dati ci dicono che a gennaio 2013 ci volevano un po’ meno di 90 yen per un dollaro. A gennaio 2014 ce ne volevano 105. Una sana svalutazione, quindi, che come nota il nostro banchiere ha di certo favorito le esportazioni.

Lato asset, invece, vale la pena osservare i dati del Nikkei. L’indice di borsa quotava un po’ meno di 11.000 punti a gennaio 2013, mentre era arrivato a superare i 16.000 a gennaio 2014. Attenzione però: gli stessi dati mostrano che da gennaio 2014 a marzo lo yen è risalito, più o meno intorno a 100 da 105, e la borsa è scesa, intorno ai 14.000 punti.

Ma quello che più conta è osservare se ha funzionato il presupposto filosofico del QQE, laddove si ipotizzava che far circolare più ricchezza a costo negativo avrebbe dovuto cambiare la propensione al rischio.

Se guardiamo al totale degli asset delle famiglie fra il 2012 e il 2013 notiamo alcune cose. intanto che il totale degli asset è aumentato: era di 1.517 trilioni di yen nel primo trimestre 2012 e sfiorava i 1.600 trilioni nel terzo trimestre 2013. Interessante però vedere nei flussi finanziari l’effetto del QQE che, lo ripeto, ormai ha un anno di vita.

Purtroppo la tabelle della BoJ arrivano al terzo trinestre del 2013, quindi l’effetto QQE si può apprezzare solo parzialmente, in attesa di avere altri dati, valutando l’andamento dei fussi finanziari fra il secondo e il terzo trimestre del 2013.

Notiamo allora che la crescita dei depositi è rimasta costante (2,1%), in linea peraltro con i sette trimestri precedenti. Si conferma il crollo dei bond (-8,7%), ma anche questo dato è in linea con i trimestri precedenti. Basti pensare che nel quarto trimestre 2011 gli acquisiti di bond erano crollati di oltre 12 punti. Gli nvestimenti delle famigli in azioni sono aumentati del 43,8% e questo ha segnato un’inversione del trend, che era addirittura negativo nel 2011 (-6,3%) e anche quelo in assicurazioni e riserve si è invertito, totalizzando una crescita del 2,8% a fronte dello 0,2 del 2011.

I dati assoluti, tuttavia, ci dicono un’altra cosa. Il grosso degli asset delle famiglie giapponesi sono ancora nei depositi, che totalizzavano 856 trilioni di yen, pari al 53,5% del totale. Le azioni, pure se aumentate, non superano in totale i 135 trilioni di yen, pari all’8,5% del totale degli asset. I giapponesi, insomma, malgrado il diluvio monetario sono ancora abbastanza prudenti.

Se guardiamo lato imprese, vediamo che effettivamente c’è un aumento degli investimenti e un miglioramento dell’outlook. Quindi i calcioni monetari hanno migliorato il clima, anche se ancora siamo lontani da una situazione ottimale.

Cosa possiamo concludere da quest’analisi? Che l’Abenomics, almeno dal punto di vista finanziario, sta portando alcuni risultati, ma l’obiettivo di fare dei giapponesi un popolo di consumatori compulsivi e investitori spericolati è lungi dall’esser raggiunto. Il cavallo ha iniziato a bere, ma ancora non galoppa. E se l’economia non ripartirà a livello globale, e il Giappone non finirà di mettere a posto la sua contabilità, innanzitutto fiscale, il QQE rischia di tramutarsi in quello che probabilmente è: una palude zuppa di liquidità.

Dalla trappola alla palude non è un gran progresso.



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