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I limiti dei millennials

Ci perviene dalla politologia nordamericana un neologismo – millennial – designante la più giovane generazione politicante che disdegna qualsiasi residuo degli ideologismi novecenteschi, rifiuta le divisioni bipolari fra conservatori e progressisti (e, anzitutto, fra capitalisti e marxisti), non crede in alcun riferimento rigido e distintivo, ma si riconosce soltanto nella contemporaneità, cioè esclusivamente in se stessa.

A studiare tale fenomeno emergente negli States è un pensatoio centrista-liberal americano, Third Way, le cui riflessioni sono state riprese e discusse dal Wall Street Journal e recuperate in Italia da Matteo Ferraresi («Il Foglio», 21 marzo), in grande rilievo e in maniera problematica. Ferraresi definisce i millennials «creativi adepti della customizzazione dell’io… per inaugurare l’era della fluidità e della indistinzione», cioè di uomini liberi ma non liberal, «che non temono di pescare qua e là le idee che funzionano, garbatamente infischiandosene di passaporti di ortodossia e tessere di partito. Potendo butterebbero a mare i passaporti e le tessere in generale».

Ogni generazione, specie in un’epoca di forte velocizzazione della diffusione di qualsiasi tipo di informazione e di autocandidature ai massimi poteri, ama essere riconosciuta per qualcosa di grande che, prima, anche a livello di fratelli meno giovani (figuriamoci dei padri e dei nonni) non c’era e che considerano un’esclusiva di se stessi. Ma, dinanzi a questi millennials, cui in Italia per parecchi versi somigliano i renziani, è il caso di mostrarsi attenti: non liquidando le loro idee e i loro comportamenti come un nuovismo destinato a dissolversi come nebbia al sole o ad essere sostituito, fra una generazione, da un’altra leva tutta impregnata di tecnologia e del tutto insensibile all’umanitarismo.

Non si può dire che, anche in questo blog, ci si sia mostrati disattenti alla neolingua politica di Renzi e compagni adoranti. Al contrario, ci siamo chiesti se quel parlare alla buona, come la gente comune che discorre dei massimi sistemi al bar, costituisca un modo opportuno per riaccostare la società alla politica, sperando di restringere l’area dell’astensionismo e dell’antipolitica. Ma ci siamo anche preoccupati di domandarci – e non siamo stati i soli – se il parlar semplice non nasconda qualcosa di già vissuto nel Novecento italiano o francese: tipo il futurismo marinettiano, che aiutò molto l’autoritarismo fascista a conquistarsi un posto al sole; o come quella grandeur antiamericanista che portò Charles de Gaulle (cui non mancò l’apporto ideale del cattolicissimo François Mauriac) a reprimere l’europeismo democristiano proprio nella fase più delicata delle relazioni concrete fra Europa democratica e Stati Uniti guardiani dell’Occidente democratico.
Giovane è bello e simpatico; ma libero, non significa ignorare il prossimo. Che, almeno da noi, rappresenta la maggioranza, non una minoranza che rischia di rivelarsi supponente e pronta a tutto (e al suo contrario).



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