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Il partito inclusivo di Berlusconi

Da qualche tempo Silvio Berlusconi va discorrendo di attrezzare Forza Italia come partito inclusivo. Ciò induce alcuni osservatori a ipotizzare si tratti di una trovata pubblicitaria e promozionale alla ricerca di riaccostare, almeno eccezionalmente, partiti nati di recente per effetto di una sentenza cassazionista e di una delibera senatoriale corsara che si consideravano decisive per espellere il Cav. dal consorzio politico. Tale opinione ha qualche fondamento.

Nasce (quando di segno positivo) dalla preoccupazione di assicurare un futuro, ridimensionato ma valido, a forze moderate evitando d’essere trascinate nel baratro della dissolvenza politica centrista; ma è pur sempre riduttiva, minimalista. Certo Berlusconi pensa a restituire vigore, almeno elettorale, a Forza Italia aprendo le braccia a tante personalità che, nell’ultimo ventennio, hanno collaborato con questo perno moderato nazionale, se ne sono allontanate per motivi i più diversi, ma ora avvertono che la separazione non ha portato bene e può condurre alla insignificanza. A parte i partitini bonsai personali, spesso ambiziosi e con qualche trascorso storicamente non irrilevante, è il partito ministerialista di Alfano, un tempo creato fin nei dettagli da Berlusconi, che s’accorge come, malgrado tutta la buona volontà dei dirigenti, non raccogliendo folle di consensi popolari, farebbe meglio a ricercare ricomposizioni, più utili per tutti.

Io credo che il partito inclusivo di Berlusconi costituisca piuttosto uno strumento innovativo in un sistema politico passato bruscamente dal proporzionalismo al maggioritarismo e, verificato il fallimento del bipolarismo all’italiana che non ha condotto al bipartitismo sognato, intenda misurarsi con una realtà politico-sociale almeno tripolare. Che non può assestarsi per casualità ma fondarsi su qualcosa di rilevante non connesso alla fragilità e alla mobilità elettorale, e sia invece incardinato su due perni-centrali, consimili quanto competitivi, che possano alternarsi nella gestione del potere, tenendo ferma la certezza di democrazia. Penso cioè che Berlusconi – nato comunicatore e diventato politico fine, malgrado le vituperie che gli si sono scagliate addosso -, esaminata criticamente la realtà disag¬gre¬gata del presente, è consapevole che i centristi e moderati italiani siano una maggioranza nella società nazionale e, tuttavia, non hanno preso coscienza della loro potenzialità maggioritaria e, anzi, per troppo desiderare, poco finiscono con lo stringere.

È dal 1994, dal momento stesso del suo primo trionfo elettorale, che Berlusconi è insoddisfatto di ciò che è mancato a Forza Italia per risultare ancora più forte attorno ad un disegno di rivalutazione complessiva della politica: perché risultasse veramente liberale e definitivamente affrancata dallo statalismo e dal dirigismo delle vecchie esperienze repubblicane e dalla minacciosa gioiosa macchina da guerra di Occhetto, ormai accolta con rassegnazione dall’establishment italiano, oltre che da corposi settori cattolici. Resosi conto che un partito liberale di massa non era in grado, da solo, di assicurarsi una maggioranza reale dei consensi, Berlusconi si rifugiò in una coalizione di centro-destra, mantenendosi fedele a questa formula sino al 2010; quando non poté non prendere atto che i compartecipanti al disegno collettivo rappresentavano interessi e ambizioni contraddittorie e non più omogenee alla visione originale. Il montismo finì col disgregare il progetto del partito-coalizione studiato nell’ambito di una concezione inclusiva che, invece, venne elusa prima da gruppi scudocrociati, poi da elementi radicali e giustizialisti di destra e, dopo il pur parzialmente vittorioso voto del febbraio 2013, da settori che quasi tutto dovevano alla liberalità e alla guida di Berlusconi.

Quel voto, da nessuno previsto, segnò il crollo delle aspettative del Pd; l’esplosione del fenomeno grillino a seguito di abili manipolazioni politiche per via elettronica; l’opportunità, per i centristi e i moderati, di proporre soluzioni di pacificazione nazionale, inizialmente riuscite, realizzate attorno alla elezione del capo dello Stato (secondo mandato, un inedito repubblicano) e dalla costituzione del governo Letta. Le intuizioni di Berlusconi vennero però in breve liquefatte dalla sentenza della cassazione e dalla Giunta per le elezioni del senato, ma anche dalla dissociazione non esaltante del nuovo centro-destra.

Già alle prime avvisaglie di un antico conflitto fra politica e giudici, Berlusconi annunciò il varo dei club Forza Silvio. Che furono intesi (e inizialmente accolti anche dai ministerialisti) come strumento organizzativo radicato nel territorio (ma non a base municipalista) per formare e fare crescere una leva specifica di militanti, propagandisti ed esperti elettorali educati a contrastare ogni forma abituale e nuova della sinistra nel manipolare le schede in tutte le elezioni: locali, regionali, nazionali. Quindi i club Forza Silvio diventavano moduli organizzativi permanentemente mobilitati in funzione di un partito popolare di massa che superasse sia le incrostazioni di ideologismo ancora presenti nelle sinistre, sia l’adozione della comunicazione elettronica sconnessa dal dibattito e dall’approfondimento politico.

L’obiettivo dichiarato di Berlusconi è di pervenire presto, prima del voto di maggio, a costituire 12 mila club Forza Silvio, estesi a tutti gli ambienti che richiamino forme di solidarietà: come l’ambientalismo, l’animalismo, l’apprezzamento per quanti, a qualsiasi età, accettino di sottoporsi ad una selezione attitudinale per fare politica dal basso e non da posizioni di potere di vertice non sempre acquisite per adesione convinta al progetto berlusconiano, ma più spesso per convenienza.

Così concepito e organizzato il partito inclusivo costituisce un ulteriore passo in avanti verso la democrazia maggioritaria e la democrazia matura dell’alternanza. Perché ciò si verifichi, però, varrà il livello che Forza Italia saprà guadagnarsi sul territorio; ma anche il riassetto complessivo di un Pd che, per ora, con Renzi, imita il vecchio berlusconismo, ma è ancora congelato attorno a frenatori di antico pelo.



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