Ho frequentato le patrie scuole superiori nella prima metà degli anni ’80, liceo scientifico. Sono passati trent’anni, ma sembrano trenta anni luce. Non solo un altro secolo, ma proprio un altro mondo, altra epoca, altro tutto. Qualche esempio? Se tornavo a casa con un brutto voto, i miei prima ancora che sentire spiegazioni mi cazziavano di brutto. Alle volte anche con annesso sonoro scappellotto. Poi dopo, molto dopo, stavano a sentire i perché e i percome. Ma in ogni caso mai, e dico mai, una lamentela contro l’insegnante (e i miei professori, vi assicuro, erano tosti). Oggi invece, nel mondo alla rovescia in cui viviamo, siamo arrivati al paradosso che i genitori piombano nelle scuole dei figli e si scagliano come delle erinni contro il malcapitato docente, solo perché l’incauto (o l’incauta) ha osato non dico mettere un brutto voto – nel qual caso rischi pure la denuncia e/o l’aggressione verbale e fisica (come si dice a Roma: te corcano) – ma un voto positivo che però non viene giudicato sufficientemente positivo. Nell’ovvio presupposto che i loro pargoli non solo hanno il diritto di andar bene ed essere promossi, ma ovviamente anche con pieni voti, o comunque con un voto che loro – non l’insegnante – valutano congruo. Altro esempio. Ai miei tempi – ripeto, trent’anni fa, non tre secoli – in classe non eravamo certo delle belle statuine, anzi. Eravamo tipetti piuttosto, come dire, vivaci. Ma nei confronti dei professori c’era rispetto. Magari li odiavi perché erano duri, perché ti caricavano di compiti come un somaro, perché le versioni di latino erano un incubo, o perché avevano un debole per il secchione di turno. Ma c’era rispetto. E quando dico rispetto intendo che, tanto per cominciare, quando entravano in classe ci si alzava in piedi e li si salutava. Poi d’accordo, alle volte ti usciva un ‘ngiorno prof a mezza bocca, altre volte un suono più o meno disarticolato che non sapevi se era umano o felino, altre volte ancora il saluto si stagliava forte e chiaro nell’aula. Ma cazzo se ti passava per la mente di non alzare il fondoschiena e salutare. E quando ti scappava il bisognino, si chiedeva il permesso per andare al bagno (poi magari andavi dappertutto tranne che in bagno, ma questo è un altro discorso), non esisteva mica che uno prendeva la porta e usciva. E mentre il prof. spiegava, di norma, dico di norma si stava in silenzio, o quanto meno si parlottava sotto voce. Anche perché mica andavano per il sottile: la prima passava, la seconda pure, ma stai certo che alla terza volta erano dolori: nota sul registro (e dopo la terza nota scattava l’espulsione) e vai con il cambio d’aria in corridoio, fino a nuovo ordine. Ora invece già è tanto se ti salutano, per riuscire a fare lezione devi urlare, devi richiamare di continuo l’attenzione perché spesso e volentieri la meglio gioventù se ne sta per i fatti suoi chattando o messaggiandosi (si dice così?) e magari si infastidiscono pure se li disturbi, e devi pure stare attento e come ti rivolgi loro e con che toni perché vedi mai che poi crescono disturbati o si sentono frustrati o con le ali tarpate dal quel fascista (a proposito, mai una volta che ti diano del comunista, boh..) del professore. E e se poi dopo sei ore filate di lezione che la gola ti arde e la voce se n’è andata, per tua somma sfortuna ti capita, chessò, che ti dimentichi di consegnare in segreteria il tal documento, beh in quel caso oltre ai danni fisici e psichici della lezione, la beffa che ti prendi pure una strigliata dal dirigente d’istituto. Perché poi non basta la fatica dell’insegnamento, le ore a correggere i compiti o a preparare le lezioni (tutto lavoro che ovviamente non viene conteggiato, essendo ancora vivo e vegeto il mito dei docenti che lavorano 18 ore), il ricevimento dei genitori, eccetera; no, ora a complicare una situazione già ai limiti, oltretutto aggravata da un degrado dell’edilizia scolastica assolutamente indegno di un paese civile, c’è pure l’abnorme mole di pratiche che i docenti devono sbrigare, prodotte dal furore didattico-pedagogico degli ultimi decenni. Se a questo si aggiunge l’assoluta mancanza di meritocrazia, complice anche l’immobilismo dei sindacati tutti protesi alla mera conservazione dello status quo (leggasi: tessere), per cui docenti con fior di curriculum si vedono trattati allo steso modo, se non peggio, di chi non ha manco la metà di titoli, abilitazioni, eccetera, si capisce facilmente lo sfacelo della scuola italiana. Intendiamoci, le eccellenze non mancano, a tutti i livelli. Né intendo aggregarmi alla già nutrita schiera dei disfattisti di complemento. Ma è un fatto che le eccellenze, purtroppo, sono eccezioni, quando dovrebbero essere la regola. Di cose da fare per invertire la rotta ce ne sono tante, già ampiamente sviscerate e analizzate per cui inutile tornarci. C’è tuttavia una questione, per così dire a monte, di naturale culturale prima ancora che economica, tecnica o pedagogica. La questione è presto detta: serve un nuovo patto tra famiglia e scuola, senza il quale non andremo da nessuna parte. E quando dico patto non intendo soltanto un mero e reciproco riconoscimento, formale e sostanziale, del valore imprescindibile dell’una e dell’altra, che pure serve. Intendo soprattutto un comune sentire, la condivisione di una rotta educativa da seguire, fermi restando ruoli e prerogative delle due istituzioni (perché tali sono e restano, checché se ne dica). La scuola deve fare la scuola, senza sostituirsi alla famiglia – come pure vorrebbe certa ideologia – alla quale per prima compete l’educazione dei figli; e la famiglia, dal canto suo, dovrebbe smetterla di vedere la scuola semplicemente come un luogo dove parcheggiare temporaneamente i giovani, o peggio ancora come una dispensatrice di diplomi manco fosse un diritto avere la licenza classica o scientifica o di qualsivoglia indirizzo (e lo stesso dicasi per la laurea, ovviamente). Sul punto vorrei sommessamente ricordare quanto dice la Costituzione, art.34: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi…” Chiaro no? I capaci e i meritevoli hanno diritto, non tutti. Nell’ovvio presupposto (ovvio per chi, come i padri costituenti, abbia una visione delle cose improntata al principio di realtà) che nella scuola, come in tutti gli ambiti della vita, esistono gli incapaci e chi non si merita di andare avanti. Una costatazione banale, direte voi. Mica tanto. Si fa presto a parlare di meritocrazia. Ma quando dal piano dei principi si passa a quello dei fatti le cose, chissà perché, non sono poi così semplici. A furia di reclamare tutto come un diritto, onde per cui sono usciti dai nostri istituti fior di somari e ignoranti che non sanno mettere in fila non dico un discorso ma neanche una frase di senso compiuto con soggetto-predicato verbale-complemento oggetto, la prima vittima illustre è stata proprio la meritocrazia. Non solo. Questa “rincorsa al diploma” – che è poi una variante di quell’«ho diritto, dunque sono» che riassume la cifra dei nostri tempi – ha innescato una dinamica sociale fortemente penalizzante e altrettanto discriminatoria a motivo del fatto che se non sei diplomato/laureato non vali un fico secco. Il che è oltremodo paradossale, se si pensa che la spinta verso un allargamento della sfera dei diritti è venuta da quella parte politica che storicamente ha eretto a suo cavallo di battaglia la difesa dei più deboli (in senso lato). Ma tant’è. Niente di nuovo sotto il sole. Guardando al futuro: famiglia e scuola hanno una grande opportunità, tornare ad essere – per usare la celebre immagine di Giovanni Paolo II – i “due polmoni” con cui far respirare la trasmissione del sapere alle future generazioni. Riusciranno i nostri eroi?
Serve un nuovo patto tra famiglia e scuola
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