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Shale gas tra ambizioni, sfide e onnipotenza geopolitica

Dal 2005 ad oggi le importazioni di gas negli Stati Uniti sono diminuite del 28%, quelle di petrolio del 16%. Nel giro di tre anni, tra il 2005 e il 2008, i fattori tecnologici che hanno portato allo sfruttamento commerciale di tight oil e shale gas hanno alimentato una variazione della produzione che dal 2005 al 2014 è stata del +65% per il petrolio e del +34% per il gas naturale.

GLI USA NEL CLUB DEI PRODUTTORI
La Pennsylvania equivale già al Qatar in termini di produzione di gas, mentre Texas e North Dakota insieme equivalgono all’Iraq nel campo petrolifero. Bisognerà aspettare il 2018, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), perché gli States divengano esportatori netti di gas; ma già dal 2011 l’export di prodotti petroliferi raffinati made in Usa hanno superato le importazioni per la prima volta nella storia.

La rivoluzione degli idrocarburi non convenzionali spinge gli Stati Uniti all’interno del club delle potenze produttrici-esportatrici a fianco di Russia ed Opec, mentre li allontana dal blocco prevalentemente consumatore di Europa, Giappone e Cina. Già questa semplice considerazione basterebbe a contenere gli euro-entusiasmi per lo shale gas americano come pegno di solidarietà occidentale in funzione anti-russa.

EFFETTI SULL’EUROPA
L’entusiasmo per gli idrocarburi non convenzionali talora è sconfinato in una serie di arrischiate concatenazioni logiche: più esportazioni di shale gas dagli Usa libererebbero l’Europa centro-meridionale (Italia, Polonia e Germania in primo luogo) dalla dipendenza dalla Russia, il che spingerebbe Mosca ad un atteggiamento più prudente in politica estera, e infine “ciliegina sulla torta”, alla crisi politica interna del regime di Putin.
Questa narrativa continua ad avere corso, anche se c’è da chiedersi perché, per esempio, Gran Bretagna o Norvegia dovrebbero essere entusiasti dell’ingresso del gas americano in Europa centrale in concorrenza con i loro interessi nel Mare del Nord. O perché dovrebbe reggere la “linea dura” francese, ovvero di un Paese che non appartiene ai campi petroliferi contrapposti (produttori, consumatori, nuovi entranti) per la sua dipendenza dal nucleare, ma che ha una punta di lancia commerciale nella filiera dell’esplorazione: Total che ha firmato a fine marzo un accordo con Lukoil per lo shale gas del deposito di Bazhenov in Siberia.

I DANNI DEL “LEVERAGE”, I PREGI DELLA STABILITA’
In realtà, per una potenza che vuole entrare in un club così esclusivo, dominato da un élite petrogasifera russo-saudita-qatarina, sono possibili due strade: quella del “leverage” (ovvero della lotta senza quartiere agli altri produttori, alla “Mattei” per intenderci) oppure quella della “stabilità” (che mira a farsi accettare, senza forzare troppo le regole e gli equilibri esistenti).
E’ la tesi di un ponderato studio del gruppo di ricerca geo-energetica del CSIS di Washington, il think tank Usa che forse meglio rappresenta il consenso bipartisan della classe dirigente americana nell’amministrazione Obama.
La conclusione del CSIS, per inciso, è che la linea da coltivare sia quella della “stabilità”, in continuità con la “dottrina Donilon” espressa dall’ex consigliere per la sicurezza della Casa Bianca nell’aprile 2013.

IL LATO “SPORCO” DELLA SHALE REVOLUTION
L’eccesso di entusiasmo può essere controproducente e condurre a quelle concatenazioni illogiche sopra citate, che attribuiscono alle fonti non convenzionali il magico potere di cambiare le relazioni internazionali sulla base di una proiezione-estrapolazione della diversa posizione di forza Usa (anzi, ancora prima della percezione della stessa).
In questo contesto rientra anche la polemica sul Keystone XL, l’oleodotto tra Alberta e Costa del Golfo del Messico che dovrebbe trasportare alle raffinerie texane gli oli bituminosi estratti dalle sabbie dell’Athabaska (in cui, tra l’altro, sono in crescita gli interessi cinesi di Petrochina). Recentemente l’ex segretario di Stato Condoleeza Rice ha rilanciato il progetto, che solleva molti dubbi da parte ambientalista, proprio come “segnale” di politica estera in chiave di “leverage”, come indicazione di una volontà di essere presenti aggressivamente sui mercati internazionali. Aggressività, però, che può rivolgersi in primo luogo contro l’ambiente.

KLARE DENUNCIA IL “DELIRIO AL CARBONIO”
Il comprensibile entusiasmo tecnologico e commerciale ha innescato una corsa alle riserve recuperabili di gas e petrolio che però, in ultima analisi, rafforza il modello di economia a fonti fossili che l’agenda verde e climatica intende superare. E’ la tesi di Michael T.Klare, che in un lungo articolo su Energy Post parla di “delirio al carbonio”. Secondo Klare, che ha teorizzato la pericolosità ambientale della corsa alle “energie estreme” (esplorazioni artiche, fracking, ecc), ci sono diversi segnali che shale gas e tight oil abbiano fatto perdere lucidità alla classe dirigente americana. Tra questi la decisione lo scorso marzo di riaprire il Golfo del Messico all’esplorazione di BP, il gruppo responsabile del disastro Deepwater Horizon nel 2010, dopo un accordo con l’Agenzia per la protezione ambientale considerato particolarmente favorevole a BP.

SHALE GAS VS RINNOVABILI?
C’è un aspetto della linea americana del “leverage” che sembra recuperato anche in un’ottica di stabilità, ed è la promozione dello sviluppo regolato delle fonti non convenzionali nel resto del mondo. Da questo punto di vista è significativo il richiamo-ammonimento del Wall Street Journal di qualche settimana fa, contenuto in un editoriale non firmato intitolato “Serietà energetica per l’Europa”. Secondo il quotidiano politico-finanziario Usa, non è sulle pale eoliche che l’Europa può puntare per superare l’attuale dipendenza dalla Russia, ma su una massiccia campagna di esplorazione e sfruttamento delle fonti non convenzionali, a partire da quelle accertate in Lancashire (UK). Luogo su cui, peraltro, è in atto una guerra informativa con Russia Today in prima fila a sostenere i comitati “Nimby” locali.

La debolezza delle fonti alternative “verdi”, peraltro sussidiate dai contribuenti, torna dunque al centro del dibattito come argomento principe dei sostenitori delle fonti fossili. Questa volta, sullo sfondo della necessità di controbattere il “revanscismo russo”. Un compito, secondo Klare, superiore alle forze, oltre che imposto strumentalmente dall’agenda degli interessi costituiti.



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