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Shale gas, ecco perché per l’Europa il cammino è tortuoso

L’annessione della Crimea e il conseguente innalzamento della tensione politica hanno aumentato le preoccupazioni dell’Europa per la dipendenza dal gas russo che soddisfa il 32% della domanda interna di metano. Da qui la richiesta che i vertici europei hanno fatto al presidente Obama per un’accelerazione degli iter autorizzativi degli impianti di liquefazione previsti sulla costa atlantica degli Usa. Una mossa per diversificare gli approvvigionamenti importando metano a prezzi bassi approfittando del boom della produzione statunitense di shale gas.

Obama non ha escluso questa possibilità, ma ha raffreddato le attese incoraggiando i leader europei a trovare le risposte a casa propria, partendo dallo sfruttamento dello shale gas presente anche nel sottosuolo del vecchio continente. Queste aspettative rischiano però di essere deluse e di allontanare l’Europa dalla strada maestra per ridurre le importazioni di gas che passa dalla crescita delle rinnovabili e dalla riduzione dei consumi grazie ad incisive politiche per l’efficienza energetica.

Vediamo perché, partendo dagli Usa. Il Dipartimento dell’Energia ha approvato i progetti di 7 impianti di liquefazione e ne sta analizzando diversi altri. Il primo ad entrare in funzione nel 2015 sarà l’impianto di Sabine Pass in Louisiana, approvato nel 2011. Gli altri impianti verranno realizzati negli anni successivi. Ma è improbabile che in Europa arrivino quantità considerevoli di metano Usa. Innanzitutto, perché le metaniere prenderanno prevalentemente la via del Giappone, che paga il gas liquefatto il 30-50% più dell’Europa.

Ma c’è un altro motivo, più di fondo, che fa ritenere poco fondata questa prospettiva: nell’arco del prossimo decennio quando le importazioni in Europa potrebbero raggiungere livelli interessanti, la produzione dello shale gas statunitense difficilmente continuerà a crescere ed è anzi possibile che possa ridursi. Diverse analisi hanno messo in guardia sul rischio che sul medio periodo la bolla dello shale gas possa scoppiare (ad esempio su Qualenergia.it, Shale gas e shale oil, verso lo scoppio della bolla? – La shale revolution è una bolla, parola di guru del trading). Quindi non ci si può illudere che il flusso delle importazioni dagli Usa possa acquisire una rilevanza significativa.

Vediamo allora quali sono le possibilità di sfruttamento in Europa, partendo dal fatto che le nostre riserve di shale gas sono interessanti, pari al 15-30% di quelle Usa. Questa opzione pare però ancora più problematica della precedente. Diverse condizioni al contorno rendono infatti improbabile uno sviluppo su scala significativa dello shale gas nel vecchio Continente. Se sarà possibile estrarlo, il suo contributo al 2030 sarà compreso tra un 3% dei consumi di gas fino ad arrivare, nelle ipotesi più ottimiste, ad un 10%.

Vediamo le differenze del contesto europeo rispetto a quello statunitense. Innanzitutto, la struttura geologica del sottosuolo rende l’accesso al metano molto più difficoltoso e costoso rispetto agli Usa. Questo si traduce nella necessità di trivellare a profondità maggiori con costi 2-3 volte più elevati.  Negli Stati Uniti, inoltre, c’è una conoscenza del sottosuolo molto maggiore, con centinaia di migliaia di trivellazioni effettuate nel corso dell’ultimo secolo che hanno consentito di avere utili informazioni geologiche e di creare infrastrutture di trasporto difficilmente replicabili in tempi rapidi. L’esperienza americana è partita una ventina di anni fa, consentendo di accumulare competenze sofisticate sulle tecniche di trivellazione e sugli additivi (spesso tossici) da utilizzare nell’acqua da inviare in pressione nel sottosuolo. Gli Usa, peraltro, hanno sostenuto le sperimentazioni con 100 milioni $ e la produzione dello shale gode diincentivi pari al 10% del prezzo del gas.

C’è poi il problema delle grandi quantità di acqua necessarie per le operazioni difracking (per la durata di vita di un pozzo servono da 5 a 15 mila metri cubi) che rappresentano un ulteriore limite da noi. A questo si deve aggiungere che l’Europa è molto più antropizzata degli Usa e questo rende più problematica l’azione di ricerca ed estrazione con migliaia di pozzi. Per garantire una produzione pari al 10% della domanda di gas occorrerebbe trivellare una superficie ampia come l’Olanda.

Va poi ricordato che negli Usa i proprietari dei terreni godono dei diritti anche sul sottosuolo, elemento che spiega in parte il diverso atteggiamento delle comunità locali rispetto a quelle europee, riducendo le contestazioni. Le preoccupazioni per gli impatti di questa tecnologia hanno già portato 5 paesi europei, inclusa la Francia che possiede le più grandi riserve di shale dopo la Polonia, a proibire il suo sfruttamento.

Malgrado il diverso contesto, le aspettative europee sono comunque elevate. Ilmaggiore entusiasmo si è registrato in Polonia e nel Regno Unito. La prima ha approvato oltre 100 concessioni ad una trentina di società su una superficie pari ad un terzo del territorio nazionale, ma i risultati sono stati finora scarsi e nel 2012 la Exxon si è ritirata dalle esplorazioni, seguita lo scorso anno da altre società.

Nel Regno Unito, dove il governo è lanciatissimo su questa opzione, si sta registrando una forte opposizione locale e  si è molto lontani da risultati concreti. Da quando è stata rimossa una moratoria a causa di rischi sismici nel dicembre del 2012, non una sola società ha fatto richieste per effettuare nuove trivellazioni, malgrado i ponti d’oro fiscali offerti dal governo. Delle sei aziende che hanno delle licenze, solo una, Igas, ha dichiarato di voler effettuare un pozzo quest’anno.

Insomma, la corsa allo shale gas europeo si presenta molto impervia. E questo malgrado facilitazioni come il trattamento di favore previsto all’inizio di marzo dal Parlamento europeo nelle valutazioni di impatto ambientale, seguendo in questo gli Usa che ai tempi del vice di Bush, Cheney, evitarono che le analisi ambientali disturbassero la crescita dello shale gas.

Leggi l’articolo su Qual Energia



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