Nel numero di aprile della rivista che dirige, Aggiornamenti Sociali, il padre gesuita Giacomo Costa paragona Matteo Renzi – nella duplice veste di segretario del Pd e di presidente del consiglio – ad una «chimera». Cioè a quel mostro mitologico ellenico con parti del corpo di animali diversi. Una bellissima scultura bronzea, nera e lucida, d’epoca etrusca, risalente al IV secolo a. C., dissepolta ad Arezzo nel 1553 e conservata nel museo archeologico di Firenze, raffigura la «chimera». Ha il muso e gli artigli del leone, una testa di capra sul dorso, una coda da serpente e veniva donata al dio Tin, suprema divinità etrusca del giorno. Sembra fungere da monito, agli umani, a non eccedere in molteplicità, a non mostrarsi con troppe facce indecifrabili, per non rischiare di diventare poco credibili e di trasformarsi in una mostruosità.
Analizzando il linguaggio di Renzi segretario e premier, padre Costa individua nella sua comunicazione politica una bivalenza: può rivelarsi di segno populista (con quel suo rivolgersi prevalentemente al popolo e non ai parlamentari costituenti la mediazione necessaria fra scettro e cittadino, se si voglia assicurare un futuro democratico all’Italia) o di segno popolare. Ma Renzi, scrive padre Costa, «usa tutta la sua retorica contro un mondo lento e burocratico di fare politica per creare un largo consenso tra il pubblico»; cioè in maniera diretta, come da sovrano a suddito.
Anzi il padre gesuita asserisce che «la questione decisiva rispetto alla qualità democratica di una leadership è piuttosto capire se essa mira al controllo, al congelamento delle dinamiche innovative a vantaggio di chi è al potere e del suo gruppo di riferimento, oppure se essa è in grado, anche con stile carismatico di aprire processi di autonomia e libertà per le persone e i gruppi sociali». Padre Costa conclude suggerendo a Renzi di non esagerare nelle sue provocazioni; di evitare di riferirsi ad «una concezione messianica della politica»; e di attenersi alla «realtà della politica», rappresentata da «imprese, sindacati, partiti, movimenti associazioni, amministrazioni locali, ecc.».
In verità proprio la visione renziana del senato, per addurre un esempio concreto della pluralità di opinioni che circolano in Italia in merito alla sua riforma, provoca più dubbi che consensi. Perché, se inizialmente, si è concordato di abolire il bicameralismo perfetto dando vita ad un «senato delle autonomie», il governo – nel quale non si avverte esista un’idea corretta dell’autonomismo – ha approvato un progetto in cui non c’è traccia di autonomismo. Che è qualcosa di molto diverso da una scelta preventiva di due sole categorie di amministratori locali, ligi alle direttive dell’esecutivo e costituenti di fatto un monocolore di sinistra. Se a tanto si vuole arrivare, tanto varrebbe sostituire il senato con il consiglio direttivo dell’Anci e con quello dell’Unione delle province.
Sarebbe più sbrigativo, meno costoso ed eviterebbe inutili duplicati. Ma la questione è quella che sottolinea padre Costa: le autonomie non sono soltanto gli enti locali (che non possono essere considerati un unicum consolidato), ma un complesso di istituzioni – dalla famiglia alla cultura, alla scuola, all’università, all’associazionismo politico-sindacale-imprenditoriale -, cioè ad una complessità e molteplicità che – aggiungo io – vengono prima dello Stato e devono essere libere di distinguersi da un qualsiasi governo, pur sempre provvisorio. Diversamente, si darebbe vita ad una mostruosità, non ad una istituzione rappresentativa del pluralismo politico e sociale nazionale.