Scorrendo l’elenco degli ospiti che parleranno al congresso della Fiom, che si apre oggi a Rimini, il più inquieto tra Matteo Renzi e Susanna Camusso dovrebbe essere il primo. Da Gino Strada a don Luigi Ciotti, da Umberto Romagnoli a Stefano Rodotà, alcuni temi classici della sinistra sindacale (e politica) avranno certamente il loro quarto d’ora di applausi: pacifismo e antimilitarismo, diritti umani e difesa degli “ultimi”, lo Statuto dei lavoratori e la “Costituzione più bella del mondo” che non si toccano.
Ma, al di là di queste pur nobili parentesi folkloristiche, forse la musica che verrà suonata da Maurizio Landini dalla tribuna della cittadina romagnola non sarà una sinfonia mozartiana per il segretario della Cgil. Perché è ormai evidente che tra i due si è via via consumata una rottura che investe lo stesso modello organizzativo e democratico della confederazione voluta da Giuseppe Di Vittorio.
Un modello centralistico e malato di burocratismo, che richiede radicali innovazioni nella formazione dei gruppi dirigenti e – anzitutto – nelle forme della rappresentanza sociale, dal cui recinto continuano ad essere esclusi proprio coloro sulle cui spalle più si carica l’onere della crisi (giovani e precari). Credo che qui Landini abbia ragioni da vendere.
C’è poi un altro punto che lo separa dall’attuale leadership di Corso d’Italia e che, invece, lo mette in singolare sintonia con la furia rottamatrice del premier fiorentino. Mi riferisco a quella concertazione che, se in passato ha fatto guadagnare alle organizzazioni di interesse un ruolo istituzionale, ha avuto un effetto distorsivo sulle logiche negoziali, allontanando progressivamente il sindacalismo confederale dai circuiti vitali della produzione. Insomma, la concertazione (ma anche le sue divisioni interne) ha concorso a trasformare il sindacato in un soggetto politico, ma gli ha anche preparato la medesima sorte subita dal sistema dei partiti nel ventennio trascorso.
Ascolteremo qual è il giudizio del segretario della Fiom sulle prime mosse del governo. Probabilmente le critiche non mancheranno, in primo luogo sulle riforme annunciate del mercato del lavoro. Landini, però, difficilmente potrà occultare un dato. E cioè che per la prima volta verrà messa nelle tasche della stragrande maggioranza dei metalmeccanici italiani (che hanno una busta paga intorno ai 1200-1300 euro netti mensili) una somma pari a un intero rinnovo contrattuale, per giunta senza un’ora di sciopero e senza che l’aumento venga scaglionato nelle ormai tradizionali tre rate nell’arco di un biennio.
A costo di farmi rimbeccare da Michele Arnese per la lunghezza di questa nota, concludo con una considerazione. Come ha osservato acutamente Giuseppe Berta nel suo recente “viaggio nelle nuove fabbriche”, il profilo del sindacato metalmeccanico domestico appare ancora diviso fra un impulso partecipativo e una curvatura antagonistica. Scisso in due tronconi che non comunicano tra loro, rischia di sbiadire la propria identità rivendicativa e il senso medesimo del suo ruolo negli insediamenti industriali del nostro Paese.
Non è questo un nodo che può essere sciolto in tribunale, a colpi di sentenze. Richiede un sindacato che, sebbene distinto tra le sue varie anime e culture storiche, abolisca i vecchi steccati di categoria: un modello che guardi all’industria e ai suoi problemi nel loro insieme, che sia in grado di leggere le nuove realtà di filiera, di gruppo e di impresa. Un sindacato dell’industria, in altri termini,in grado di affrontare realtà per realtà con il metodo e gli strumenti della contrattazione decentrata.