Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
Di Europe ce ne sono ancora due. Nonostante la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica abbiano dissolto le contrapposizioni della Guerra fredda e sia diventato realtà quel che per decenni era stato l’orgoglioso slogan di De Gaulle: Europa dall’Atlantico agli Urali. È cambiata la geografia delle divisioni, sono cadute in parte le sue cause, se ne sono aggiunte altre che sono ora più Nord-Sud che Est-Ovest.
Ci se ne accorge subito quando ci si sposta dall’uno all’altro capo di questa Europa che dovrebbe avere messo in comune tante cose e non solo la moneta.
LA DIFFERENZA COL MEDITERRANEO
I problemi del Mediterraneo sono estranei se non contrapposti a quelli del Baltico, le speranze (poche) e le ansie della penisola iberica sono quasi sconosciute nella pianura polacca di frontiera. A Lisbona e a Madrid (e ad Atene e a Roma) si contano le rate del debito e le pretese dei creditori, a Varsavia ci si compiace dei risultati ottenuti e ci si mobilita per quella che potrebbe essere la nuova minaccia dall’Est.
IL MIRACOLO POLACCO
Lo si intende subito se nella capitale polacca si arriva non con l’aereo, ma con la macchina da Berlino su una delle autostrade più nuove d’Europa con un fulcro nella vecchia Potsdam, un tempo parte dell’Altra Europa. A Varsavia si incontra un Paese la cui economia è progredita negli anni neri della recessione, che è cresciuta di un quinto mentre altre nazioni calavano, che ha condotto riforme e modernizzazioni, che non pensa a bancarotte e commissariamenti e che ha come motore della propria modernizzazione l’aumento delle spese militari. E il governo di qui critica l’America perché non «militarizza» di più la Nato e si «disperde» in aree remote come l’Estremo Oriente. «Qui è la minaccia», dicono i politici polacchi, «non in isole remote o nel Medio Oriente». Cina, Iraq, Siria, perfino Palestina sono remote periferie: quello che conta è la Russia e soprattutto, in questo momento, l’Ucraina. Nessun governo dell’Occidente propugna l’ingresso di Kiev nella Nato con la stessa insistenza e decisione di quello polacco.
IL RAPPORTO TRA KIEV E VARSAVIA
A confermare una volta di più che la Polonia considera l’Ucraina un «Paese fratello». Lo dimostra in mille modi, di recente con un’iniziativa di genere sportivo: l’organizzazione dei Mondiali di calcio nel 2012, affidata congiuntamente a Polonia e Ucraina. Durante e soprattutto prima di quelle gare, l’interesse maggiore della popolazione e della classe politica non è stato il computo dei gol o dei calci d’angolo, ma una nuova ramificazione del desiderio intenso di ricostituire fra Kiev e Varsavia un rapporto che vada ben oltre l’alleanza e si avvicini invece a una integrazione. Meglio, reintegrazione: da queste parti non hanno dimenticato i giorni del primo dopoguerra, quello del crollo degli imperi russo, tedesco e austriaco; polacchi e ucraini colsero l’occasione per ristabilire una «indipendenza» in comune.
DESTINI DIFFERENTI
Al crocevia tra la Rivoluzione bolscevica e il trattato di Versailles cercarono ambedue l’indipendenza. I polacchi ci riuscirono, gli ucraini no. Ma la voglia è rimasta. Si nutriva e si nutre di memorie ancora più lunghe: i secoli in cui l’Ucraina fu parte di una grande Polonia, una nazione che si spandeva dal Baltico al Mar Nero, più vasta e più forte della Russia. Non era una integrazione del tutto equa: i polacchi erano i padroni, i latifondisti, mentre gli ucraini coltivavano la terra per loro. Ma assieme erano il granaio d’Europa ed esportavano tanto grano, per esempio in Francia, che quando la triplice aggressione delle spartizioni della grande Polonia interruppe quel flusso, su Parigi e dintorni si avventò quella carestia che diede la spinta decisiva alla Rivoluzione Francese del 1789.
IL PASSATO DA DIMENTICARE
Ai polacchi ne derivò una patria ristabilita e a lungo contestata, gli ucraini dovettero aspettare molto di più. Due Paesi uniti, oltre al resto, da una certa comune spinta espansionistica e dall’incubo dell’espansionismo altrui. Germania e Russia erano i due vecchi nemici. Oggi ne è rimasto uno, quello di Mosca, il revanscismo attribuito a Putin. Al punto che il primo ministro polacco di recente si è appellato alla Germania perché prenda la guida dell’Europa. Quando ci sono interessi in comune si può cercare di dimenticare anche il passato.
I CONTRASTI CON MOSCA
Ma con la Russia non è così. Sul rapporto fra Mosca e Varsavia pesano troppe memorie non ancora redente. Per esempio Katyn, le fosse comuni in cui Stalin fece gettare i resti di migliaia di ufficiali polacchi, in pratica l’intera struttura dell’esercito di un Paese dalle forti tradizioni e pulsioni di combattente. Seimila cadaveri in un acquitrino, una fetta consistente del ceto medio di emanazione appena risorta da un lungo servaggio. È il destino che aiuta a non dimenticare, ancora di recente. All’appuntamento con Putin per una riconciliazione proprio a Katyn si doveva presentare in volo l’intero governo polacco. Ma l’aereo, proprio lì, precipitò. Il destino infierì sulla ipotesi di un abbraccio. La crisi ucraina ripropone oggi crudamente un risveglio. Con un incoraggiamento da molto in alto: l’aureola della santità sul capo di Giovanni Paolo II che era stato, da prima e da sempre, il patrono guerriero del popolo polacco.