Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
E due! Dopo avere deciso di abolire metà delle 27 Regioni entro il 2017 e tutte le Province entro il 2021, il premier francese Manuel Valls ha messo a segno un altro colpo, imponendo a Google di pagare tasse arretrate per un miliardo di euro. A differenza di Matteo Renzi, che tra i suoi primi atti di governo bloccò la web tax proposta da un deputato del suo stesso partito (Pd), e si giustificò dicendo che su questa materia si doveva trovare un’intesa europea prima di tassare, Valls non ha perso tempo a discutere con gli euro-burocrati e con gli altri premier europei. Ha preso in mano il dossier che il fisco francese aveva preparato dopo un’ispezione fiscale su Google compiuta nel 2011, e ne ha sposato le conclusioni, infliggendo al colosso di Mountain View una maxi-multa. A questo punto, Renzi non può più accampare scuse europee; se davvero vuole trovare una copertura strutturale al bonus di 80 euro, imiti il suo parigrado francese Valls e inserisca anche il gettito della web tax tra le poste di bilancio che dovranno assicurare i 10 miliardi annui necessari per rendere stabile il bonus di 80 euro.
I primi ad appoggiarlo saranno gli editori di tutti i media (cartacei, televisivi e on line), che si vedono ogni giorno scippare i prodotti informativi da Google, senza che quest’ultimo debba sostenere né il costo delle redazioni, né gli oneri fiscali a cui sono obbligate le imprese italiane. Si tratta di una competizione sleale che l’editore del gruppo Repubblica-Espresso, Carlo De Benedetti, denunciò per primo alcuni mesi fa, facendosi paladino dell’introduzione della Google tax. Sul medesimo tema è di pochi giorni fa l’intervento di Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, che, in occasione dell’assemblea del suo gruppo, ha sollecitato il governo a varare «una web tax contro il neo-colonialismo di Google, Facebook e Amazon, che generano ricavi e utili in Italia, ma non pagano qui le tasse e non rispettano le leggi che tutelano la proprietà intellettuale».
Dopo il ritorno all’utile di Mediaset (8,7 milioni, contro i 287,1 di perdita nel 2012), Confalonieri ha tenuto a spiegare che «non basterà una gestione brillante dei conti per agganciare il ciclo positivo dell’economia, quando finalmente arriverà la ripresa». Ci vorranno idee, contenuti e aggressività «perché oggi la partita non è contro i broadcaster classici, ma contro i colossi multimediali, gli operatori di internet che pensiamo non rispettino le leggi di tutela della proprietà intellettuale, che invece a noi televisivi vengono, giustamente, applicate con rigore». E poi l’affondo: «Google, Facebook e Amazon generano ricavi e utili in Italia, ma non pagano qui le tasse». Questi giganti del web sono nei fatti delle «aziende fantasma», con occupazione prossima allo zero, che rastrellano pubblicità per centinaia di milioni «senza che le autorità di regolazione possano avere l’esatta dimensione del fenomeno». Ecco perché, ha sottolineato Confalonieri, «l’obiettivo della web tax, cancellata da uno dei primi consigli dei ministri del governo Renzi, era giusto: colpire le forme moderne, ma non per questo meno odiose di evasione».
Oltre che sul consenso degli editori, il premier Renzi può contare su quello del ceto medio che tiene in banca conti correnti e risparmi, entrambi sottoposti da Renzi a una maggiore tassazione (dal 21 al 26%) proprio per finanziare il bonus da 80 euro. Una mossa sbagliata. Tanti piccoli risparmi investiti in un’obbligazione societaria consentono al gruppo che l’ha emessa di finanziarsi direttamente sul mercato, superando l’ostacolo del credit crunch. Un governo meno demagogico e meglio consigliato avrebbe agevolato una simile forma di risparmio produttivo, invece di punirla. Un errore grave, a cui è ancora possibile porre rimedio con la rapida adozione di una web tax simile a quella francese, compensando così anche un ritorno ad aliquote fiscali più leggere sui risparmi investiti a scopi produttivi.
Le ispezioni del fisco francese hanno accertato che Google France dichiarava nel 2011 un giro d’affari di appena 150 milioni, sui quali pagava 5,5 milioni di euro, somma giudicata «ridicola». Il fisco francese ha invece appurato che le entrate della filiale francese di Google erano di almeno 1,3 miliardi l’anno: così, calcolando gli arretrati e gli interessi, si è arrivati alla maximulta di un miliardo di euro. Somma che Google ha già deciso di pagare, accantonando una somma di pari importo nei documenti di bilancio consegnati all’autorità di controllo delle Borse americane (Sec) per la chiusura del primo trimestre 2014.
I giornali francesi, con l’aiuto dei funzionari del fisco, hanno spiegato i trucchi con i quali i giganti del web americani aggirano il fisco nei Paesi europei. I due più diffusi sono noti con il nomignolo di «sandwich olandese» e «doppione irlandese». In pratica, scegliendo come sede fiscale Paesi come l’Olanda, l’Irlanda e il Lussemburgo, dove le tasse sono quasi al livello dei paradisi fiscali, e compiendo abili triangolazioni, giganti che trasudano utili come Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft riescono a pagare legalmente tasse ridicole. Le Monde ha spiegato che attivando una semplice buca delle lettere (boite aux lettres) in Lussemburgo si può pagare l’Iva al 15 per cento, che sui libri elettronici scende al 3 per cento. In Irlanda l’imposta sulle società è del 12,5 per cento (contro il 33,3 in Francia).
Quanto all’Italia, i dati ufficiali dicono che Google nel 2012 ha realizzato 52 milioni di ricavi, con un utile di 2,5 milioni, pagando appena 1,8 milioni di tasse. Cifre assai lontane dalla realtà, sostengono gli operatori del settore: per loro Google è già il secondo player pubblicitario dopo Publitalia (Mediaset), che fattura più di 4 miliardi. Qui, se davvero vuole «cambiare verso», Renzi batta un colpo e imiti Valls. Meglio tardi che mai.