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Perché l’ascensore sociale non funziona più

Questo commento è stato pubblicato su L’Arena di Verona

Sarà perché è più facile chiedere ai poveri che ai ricchi, come scriveva Anton Cechov: a volte la letteratura c’azzecca più della politica. Certo è che, archiviata da tempo l’utopia comunista con i suoi fallimenti sociali, oggi è molto semplice, paradossalmente, cogliere l’ingiustizia nelle diseguaglianze. L’ultima rilevazione e rivelazione del Censis aiuta a farlo in Italia: i dieci uomini più ricchi del Paese hanno un patrimonio corrispondente a quello di 500 mila famiglie operaie messe insieme. Il tesoretto è di 75 miliardi di euro.

L’aspirazione per una società più equa non passa attraverso l’idea di punire il capitale e chi l’accumula, bensì di creare le condizioni perché il maggior numero possibile di persone possa beneficiarne. Eppure, dieci Paperoni rispetto a cinquecentomila lavoratori che tirano la carretta senza speranza di poter un giorno – anche uno solo di loro! – diventare il Paperone numero undici, è qualcosa che fa molto male. Come se si accendesse una spia rossa per segnalare un guasto grave nel motore dell’economia. Perché, dunque, dagli anni del meraviglioso e contagioso boom (quel miracolo italiano che cinquant’anni fa diffuse un benessere di massa), le distanze fra chi ha moltissimo e chi ha pochissimo sono diventate, oggi, un abisso? Anche tralasciando la solita globalizzazione, che di colpo ha arricchito troppi e troppo nel settore finanziario senza la benché minima e tradizionale fatica del lavoro (e con le ricadute altrettanto repentine e disastrose delle “montagne di carta” sulle nostre pur solide economie), quel che è cambiato in modo profondo è il cosiddetto ascensore sociale.

L’Italia è piena di figli e soprattutto nipoti di contadini, di artigiani, di impiegati e lavoratori che vivevano ai minimi livelli di salario e massimi di sacrificio. Figli e nipoti che sono riusciti ad affermarsi. In passato i figli del ceto medio e basso non agiato avevano la possibilità, se bravi e perseveranti, di fare molta più strada dei loro onesti, ma sfortunati padri. Ora questa prospettiva di riscatto sociale e morale è diventata molto più difficile. I figli di quei dieci Paperoni non avranno problemi per formarsi nelle migliori e costose Università del pianeta. Per ricorrere all’assistenza sanitaria più all’avanguardia. Per usufruire di maggiori opportunità di lavoro e di svago ovunque. Buon per loro.

Ma ai figli dei cinquecentomila lavoratori il merito e la tenacia oggi non bastano più, a differenza di ieri, per un futuro migliore. Quel sostegno istituzionale e di protezione sociale che serviva per consentire a tutti di partire eguali e poi “vinca il migliore”, da tempo è malconcio, asservito a logiche clientelari e di potere, carissimo (ogni genitore sa bene quale sia il costo di un’Università pubblica in Italia), e perciò non aiuta più a fare la differenza fra chi ha già tutto in famiglia e chi deve invece guadagnarsi il pane partendo da zero o quasi. L’ascensore sociale non sale più. E’ fermo al primo piano di una politica rissosa, di una burocrazia ottusa, di una classe dirigente che, a ogni livello, poco si cura di “guardare al domani”.

E allora riscoprire il senso dello Stato significa provare a far ripartire l’ascensore. Per consentire ai più bravi o bisognosi, a prescindere dalla provenienza sociale, di sognare se non la ricchezza, che nella vita non è mai tutto, almeno un po’ di felicità.

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