La sovraesposizione televisiva, specie in campagna elettorale, non è detto che aiuti a guadagnare voti; può procurare il contrario. Ne ebbe presto consapevolezza Amintore Fanfani, segretario della Democrazia cristiana, nel maggio 1958: quando comprese che, quel suo pretendere dalla tv di Stato di dire la sua ogni sera nel telegiornale delle 20,30 della Rai monopolista del servizio pubblico televisivo, richiamava più dissensi che consensi.
Allora, con molto garbo per non irritarlo, i dirigenti dell’unico canale tv, dissero chiaro e tondo al leader scudocrociato, impegnato nel vano tentativo di riconquistare la maggioranza assoluta del 1948, che i loro interni (e sperimentali) indici rilevatori delle opinioni dei teleutenti segnalavano una domanda di pluralità di volti scudocrociati: anche per dimostrare che la Dc era un grande partito democratico, unitario ma non monocorde.
Negli ultimi giorni di campagna elettorale furono mostrati dalla Rai altri protagonisti e candidati del partito di maggioranza relativa; e la Dc poté in effetti recuperare consensi il 25 maggio. Fanfani restò nella convinzione che, a persuadere gli italiani, fosse stato il pletorico programma scudo¬crociato; gli altri dirigenti demo¬cristiani, specie gli esponenti delle svariate e diversificate minoranze, poterono constatare, nel territorio, e specie nella capitale, che aveva opportunamente funzionato la pluralità dei volti (e delle motivazioni differenziate) comparsi nel telegiornale più seguito dagli italiani. Un secondo, che andava in onda poco prima della mezzanotte, aveva comprensibilmente ascolti molto inferiori.
Ora nel Pd, che appare come partito di maggioranza relativa, e come tale è considerato da tutti gli istituti demoscopici, le minoranze si lamentano, per esempio con Pippo Civati: che si domanda perché mai la battaglia politica per conquistare seggi a Strasburgo si declini quasi esclusivamente al singolare; con il premier e segretario Renzi che parla da solo e per tutti, quasi che, dietro di lui, non ci fosse un partito vero, strutturato, con militanti che non vogliono sentirsi fuori gioco. Civati accenna ad una sindrome del centravanti e ha il semplice torto di non aver saputo convincere, nelle primarie, più votanti di quanti espressero la propria preferenza per il sindaco di Firenze, oltre tutto rimasto, com’era, un politico estraneo al parlamento. Però, nella sostanza, il rischio paventato da Civati ha un senso, con precedenti storici di alto profilo e perciò da non trascurare.
La sovraesposizione televisiva – può confermarlo qualsiasi esperto di comunicazione – può anche danneggiare, mentre chi la subisce, specie oggi che i canali sono addirittura un migliaio, può tranquillamente ricorrere al vittimismo per giustificare una propria diserzione o un più limitato impegno nella ricerca di voti. In ogni caso anche queste dispute interne sono il segnale di una ulteriore diminuzione della tensione politica persino nei partiti maggiori e della riduzione di questa a meri scopi personalistici.