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Ecco i veri motivi delle litigate fra Draghi e Lagarde

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’articolo di Tino Oldani apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Il duello a distanza tra Mario Draghi (Bce) e Christine Lagarde (Fmi) continua. Settimana scorsa, nel corso della solita conferenza stampa mensile, Draghi ha annunciato per giugno un nuovo intervento della Banca centrale europea per contrastare quelli che considera i due ostacoli principali per la crescita: il cambio troppo elevato dell’euro e il tasso d’inflazione troppo bassa. En passant, senza fare nomi, non ha mancato di tirare una nuova frecciata a Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale: «La Bce ha ricevuto suggerimenti sui tassi d’interesse, sul tasso di cambio, sulla liquidità: siamo grati per tali consigli e rispettiamo i vari punti di vista, ma sapete che, secondo il Trattato Ue, siamo indipendenti e tutti devono essere consapevoli che mettere in discussione la nostra indipendenza può creare danni a lungo termine alla nostra credibilità».

LA RISPOSTA DI LAGARDE

Per nulla intimidita dall’accusa di «creare danni alla credibilità» della Bce, lunedì 12 la Lagarde ha risposto con un mix di elogi e di rimproveri. Applausi per Draghi, che “ha trovato le parole giuste al momento giusto” (con riferimento al celebre “whatever it takes” con cui nel luglio 2012 il presidente della Bce fermò la speculazione sull’euro e sui debiti sovrani), ma anche critiche durissime: «La politica monetaria dovrebbe dare ulteriori impulsi per la crescita. Il flusso del credito nel settore bancario è sempre ancora fermo, i mercati del credito sono frammentati. Questo significa che, nei Paesi in crisi, le imprese hanno chiaramente più difficoltà a ottenere credito di quanto avvenga nei Paesi economicamente più forti dell’eurozona. Inoltre i duraturi tassi bassi di inflazione comportano altri rischi aggiuntivi». Quest’ultima annotazione costituisce senza dubbio la critica più pesante per Draghi, in quanto il compito principale della Bce, anzi l’unico, è proprio quello di tenere sotto controllo l’inflazione, assicurandosi che si mantenga intorno al 2%. Obiettivo che da mesi viene mancato: l’inflazione media Ue viaggia intorno allo 0,5 per cento, segnale evidente di deflazione e di recessione nello stesso tempo. Dunque, uno scenario economico pessimo, di cui la Lagarde sta incolpando soprattutto Draghi.

LA CRITICA DI VALLS

La critica della direttrice del Fondo monetario segue a breve distanza quella lanciata dal premier francese Michel Valls, che, non solo si è lamentato per il cambio troppo elevato dell’euro, ma ha anche chiesto una svalutazione di almeno il 20 per cento della moneta comune europea, mandando su tutte le furie la cancelliera Angela Merkel, che, da un euro forte, sta ricevendo solo vantaggi, primo fra tutti l’enorme surplus commerciale della Germania. Finora questi screzi hanno destato scarso interesse in Italia, sia tra i politici che sulla grande stampa, ennesima conferma del ruolo sempre più ininfluente del nostro Paese sul piano europeo e internazionale. Un letargo autolesionistico a cui potrebbe seguire un brusco risveglio all’indomani delle elezioni europee, quando cesserà la tregua che la Bce si è imposta per non turbare il clima elettorale europeo, soprattutto in Germania.

COSA PUO’ FARE DRAGHI

Ora la domanda che in Europa molti si pongono riguarda proprio Draghi: che cosa può fare per rispondere alle critiche? Da banchiere preparato ed esperto qual è, sa bene che oltre all’euro sopravvalutato e alla bassa inflazione, tra poco dovrà fare i conti con un terzo problema: la graduale riduzione del quantitative easing da parte della Fed Usa provocherà un rialzo dei tassi negli Stati Uniti, e questo finirà per spingere oltre Atlantico i capitali in cerca dei rendimenti migliori. Il rischio per l’eurozona è evidente: se i capitali oggi investiti nei debiti sovrani europei, soprattutto in quelli dei Paesi più a rischio (Italia compresa), dovessero emigrare, sarebbe un colpo durissimo non solo per l’euro, ma anche per le banche europee che oggi hanno in pancia grandi quantità di Bot, Btp, Bonos e così via. Se a tutto questo si dovesse sommare lo sgonfiamento della bolla finanziaria che è cresciuta negli ultimi mesi a seguito del forte rialzo delle Borse e delle attività speculative, l’Europa precipiterebbe in un crisi non dissimile da quella già sperimentata nel 2011-12. E non è detto che questa volta possa bastare un “whatever it takes” della Bce per fermare la speculazione. Servirebbero non parole, ma risorse concrete, e regole più chiare sulla governance dell’euro.

CHI PUO’ SVALUTARE L’EURO

Come abbiamo già visto in un precedente articolo, perfino il portavoce della Merkel ignora chi possa svalutare l’euro. È convinto che spetti alla Bce. Ma così non è. Lo stesso Draghi, nella conferenza stampa di settimana scorsa, lo ha ribadito, spiegando che «il tasso di cambio dell’euro non è uno degli obiettivi della politica monetaria della Bce». Non è un suo compito, né può darselo da sola. Sono più o meno le stesse parole che Draghi aveva detto in dicembre in un’intervista al Journal du Dimanche, quando spiegò che “non voleva fare congetture sulla buona parità tra euro e dollaro”, pur ammettendo che un cambio elevato poteva influire sulla crescita e sull’inflazione. Da allora sono passati cinque mesi, e solo ora la Bce si è decisa a dire che l’euro forte è un nemico della crescita.

I CONSIGLI DI SAVONA

Eppure i buoni consigli non erano mancati. Il Manifesto per cambiare l’Ue dell’economista Paolo Savona, pubblicato il 28 dicembre proprio su Italia Oggi, indicava come prioritaria «l’attribuzione alla Bce almeno del compito di intervenire sul cambio dell’euro». Una lacuna unica al mondo per una Banca centrale, di fatto impedita nel correggere una rivalutazione continua quanto dannosa, soprattutto per chi esporta. Ma nessun leader politico in Italia raccolse quell’appello. La Germania, invece, ha approfittato della lacuna, mentre Draghi e la Lagarde si sono accapigliati sui dettagli del loro potere. Cinque mesi persi. Ora sta per arrivare il conto da pagare, e potrebbe essere salato, soprattutto per l’Italia.



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