S’i fosse foco arderei lo munno, scriveva iconoclasticamente il primo poeta della letteratura senese Cecco Angiolieri, per condannare la pochezza, la viltà, le inerzie dei suoi contemporanei, scelleratamente eterni divisi per un tozzo di pane e dieci metri quadri di orto. Dal grande protestatario che minaccia di cacciare tutti i politici, di qualsiasi colore, dal Palazzo per immettervi robot da lui manovrati avendo ad insegna il primo verso dell’urlo di Cecco contro tutti i suoi coevi, sorpresi, abbiamo invece tutti ascoltato altra musica: parole sempre simili a ringhi di cani randagi posseduti dalla rabbia mortale, ma d’improvviso calati di tono, di asprezza, di antimodernità.
Nel salotto di Porta a Porta dove, secondo roboanti preannunci, Grillo prometteva di sfogare tutto il suo rancore per malefatte, soverchierie, inefficienze, ruberie dell’intera casta politica repubblicana. già al primo collegamento televisivo, in apparente fuorionda, Grillo è parso un altr’uomo: nervoso come a un debutto teatrale giovanile, timoroso come fosse in una grotta di ceffi ostili che gli avrebbero misurato con l’alambicco degli sperimentatori di cavie umane qualsiasi singulto o insulto. E, invece, sorpresa, Grillo, che non si sentiva comodo come in una piazza in cui un pubblico inebetito s’inebria e dispensa urla d’approvazione di fronte ad un eloquio terrificante, senza riguardi per nessuno, è parso subito fra il contrito, il prudente e l’imprecante di razza che attende di azzannare alla gola lo sfidante al suo primo segno di debolezza.
Il comico genovese era come paralizzato, incapace di fare ridere a crepapelle il suo pubblico insolitamente entusiastico e credulone; non riusciva a stare fermo un attimo; pareva rifiutare di sedersi in poltrona secondo gli usi della casa e le convenienze di un colloquio mai semplice: perché lì, di fronte al veterano della comunicazione politica, il tanto odiato (e invidiato) Bruno Vespa, ogni movimento di sopracciglia può segnare gli effetti reattivi del popolo televisivo e la sorte della rappresentazione d’un progetto politico talmente straordinario da richiamare l’approvazione d’una maggioranza di teleutenti distratti dall’urlo continuo, spregiudicato, massacrante ogni politico in disaccordo.
Sarà stato anche perché è mancata la sceneggiata del grande pacco che doveva contenere il plastico di un castello con tutti i politici in carica considerati ladri e ristrettisi in difesa di se stessi in una fortezza circondata da dieci milioni di grillini furenti che la assediavano in attesa di vederla sgretolarsi per implosione. Sarà per quella preventiva rinuncia all’insulto, concordata per non procurarsi querele pericolose per lui – anch’egli «pregiudicato» secondo le categorie valutative dell’amico Travaglio – dall’occhiuta censura di giudici e potenti di varie specie, un insolito Beppe Grillo l’altra sera in Tv, pur non avendo abbandonato il suo tradizionale armamentario di catilinarie, forse per l’arsura dell’apparato oratorio, forse per la fredda ma anche scherzosa reazione del conduttore, è parso molto meno sicuro che nelle concioni piazzaiole. Pareva incerto sul momento di andare nell’affondo decisivo (che non c’è mai stato); timoroso di non strafare; soprattutto, impacciato nell’esporre la sua avversità politica e dei milioni di seguaci che chiama a raccolta. Quando poi, sul finale della sfida, il Vespa lo ha per un paio di volte invitato a non agitarsi, a stare un po’ tranquillo, a sospendere – in caso di bisogno fisico – per qualche attimo il pronunciamento, Grillo ha come cessato di frinire. Ha abbassato ulteriormente i toni trionfalistici. Si è sentito ristretto nei limiti umani che anche al demagogo sono comuni.
E, al termine dell’ora di sproloqui concessagli, s’è leggermente inchinato per stringere la mano allo sfidante, raggiante di aver saputo addomesticare il diverso: che si presentava come una belva incarognita, ma si era ridotto ad un capo tribù primitivo che, alla conta delle conti, aveva detto milioni di ovvietà, parecchie sciocchezze economiche, parlato da primattore da bar Sport e proposto cosa? Il ritorno all’età della pietra e del fuoco da strofinamento primitivo che, però, la sua setta speciale chiama Gaia; cioè una terra (e un universo?) che sia difesa nelle sue coste, nelle sue selve, nei suoi ghiacciai, pena l’autodistruzione. Insomma, un veteroambientalismo nell’epoca del bit, del laser e del «democraticissimo» twitter. Diciamola tutta: Beppe Grillo ha fatto flop.