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Davvero siamo incapaci di uscire dalla crisi?

recessione

Si può resistere all’invasione degli eserciti, ma non si resiste all’invasione delle idee
(Victor Hugo)

Per l’Italia, secondo l’Istat, la recessione è finita, ma non c’è da stare allegri e anzi dovremmo tutti rimboccarci le maniche e sperare che le strategie per la crescita annunciate continuamente dal nuovo Governo negli ultimi mesi, non tornino nel libro dei sogni dopo aver centrato l’obiettivo elettorale, ma si traducano rapidamente in leggi, investimenti e semplificazione burocratica.

Il rapporto Istat 2014, presentato questa mattina a Montecitorio, offre come sempre una fotografia sufficientemente chiara della nostra situazione economico-sociale. Dal punto di vista finanziario, il previsto aumento del prodotto interno lordo dello 0.6% quest’anno, dell’1% nel 2015 e dell’1,4% nel 2016 rappresenta un segnale di speranza dopo anni di recessione, ma non elimina i problemi del nostra Paese, ancora inchiodato a valori preoccupanti, con un differenziale debito/pil stretto ancora nella tenaglia di un debito altissimo e una crescita quasi impercettibile.

Il problema principale resta questo: non cresciamo e il necessario aumento dei consumi interni finalmente avviato sicuramente non basta. In più altri indicatori evidenziati dall’Istat spiegano ancora meglio le difficoltà strutturali del nostro Paese: il tessuto imprenditoriale conserva numerose eccellenze, aziende che hanno continuato a svilupparsi nonostante la crisi, ma in termini assoluti sono poche, non più del 30%. Allo stesso tempo permangono valori di disoccupazione allarmanti con 6,3 milioni di italiani potenzialmente impiegabili che sono esclusi dal mercato del lavoro, per quanto in questo caso le statistiche ufficiali non possono tenere in conto i valori del lavoro in nero, negli anni della crisi ancora aumentato: un elemento, quest’ultimo, comunque di ulteriore preoccupazione e che non può certo rappresentare una consolazione.

C’è, infine, un dato che rappresenta un decisivo trend sociale degli ultimi anni. Aumentano povertà e diseguaglianze e il Mezzogiorno è un territorio sempre più solo e abbandonato, con valori di disoccupazione che per le donne toccano il 70%, una popolazione sempre più vecchia a causa di un rinnovato fenomeno migratorio e una famiglia su cinque in cui non è presente neanche un occupato. Il Sud, grande assente anche dell’ultima campagna elettorale, è completamente abbandonato, il convitato di pietra di tutte le riflessioni sulla nostra economia e fino a quando la “questione meridionale 2.0” non sarà messa al centro dell’agenda di Governo, sarà difficile immaginare per il nostro Paese una reale uscita dalla crisi.

Dire in poche righe quale sia la ricetta per invertire finalmente l’andamento stagnante della nostra economia risulta ovviamente impossibile, ma ormai è chiaro a tutti che bisogna intervenire con riforme strutturali, lavorando sull’hardware del nostro Paese prima che sul software. E quindi, riforma della PA e semplificazione burocratica, piano di investimenti infrastrutturali, anche in chiave tecnologica ad esempio realizzando la banda larga (previsione +2% pil nazionale) e il wi-fi libero in tutta la penisola (+1,6% pil), creazione e sviluppo di poli tecnologici anche agendo sulla leva fiscale, piano integrato nazionale per la cultura e il turismo.
Il segnale che è arrivato dalla urne è chiaro e mostra, a dispetto di molti commentatori, la maturità degli italiani, la fiducia verso il proprio Paese e la voglia di guardare ancora al futuro: un sostegno e allo stesso tempo un’assunzione di responsabilità di cui i nostri decisori politici devono fare tesoro. Di corsa!



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