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Renzi, Grillo e l’estetica italiana del leaderismo

Mi sono fatta un’opinione che è difficile da smentire: il popolo italiano è veramente ammaliato dal leaderismo e soggetto al facile disinnamoramento. Nelle urne in pochi mesi abbiamo trovato da una parte una débâcle del partito che fa capo al capocomico e al suo guru, una strana coppia composta da un ululante personaggio e da un personaggio ridicolo e guerreggiante, nonché dai seguaci che scompostamente siedono in Parlamento.

Dall’altra parte il consenso al giovanotto toscano votato da ben il 41% delle e degli italiani che hanno sicuramente scelto l’energico presidente che ha realizzato il miracolo di fare di un pd astioso un partito a vocazione americana, e di una destra litigiosa e spezzettata una poco seducente alternativa. Quello poi che si sta vedendo in questi giorni rafforza la mia idea: da Fitto a Lupi già destrorsi scalpitanti a Giannini e Romano già traditori montiani, tutti vogliono andare con Renzi rincorrendo il trono del toscano magari in cambio di uno strapuntino.

Dunque il quadro politico si compone e si scompone come un caleidoscopio dietro ad un uomo solo al comando che non ha dei partiti credibili che possono aiutarlo a realizzare quelle riforme e quelle promesse fatte al popolo. Perciò noi testardamente e coerentemente insistiamo sui nostri utili consigli e istruzioni per l’uso del successo elettorale prima che la passione svanisca velocemente. Allora puntualizziamo da brave maestre: il ritorno alla crescita dipende dalla velocità di riduzione del debito, che va affrontata con un intervento straordinario derivante dall’uso congiunto di patrimonio pubblico e privato.

Occorre un’idea di politica industriale che parta dal presupposto che non si tratta più di mettere le stampelle al capitalismo esistente (e residuale, ricordiamoci che in questi giorni Putin si è pappato un 37% della nostra Pirelli), ma di predisporsi ad accogliere una vera rivoluzione industriale che scardinerà i vecchi paradigmi industriali del modello di produzione fordista e del valore aggiunto della “ripetitività” per lasciare il passo al sistema dell’innovazione permanente. Significa cambiamenti normativi – per esempio i diritti di proprietà intellettuale – un’adeguata specializzazione della forza lavoro con processi di apprendimento lifelong learning e buone università collegate con il mondo del lavoro, spesa pubblica diversamente indirizzata.

Insomma, realizziamo il prima possibile un sistema di protezione sociale che superi la cassa integrazione che illude imprenditori e lavoratori e le aziende decotte possano rinascere, e via con nuove politiche che finalmente superino la stucchevole dicotomia “Stato e mercato”. Infatti i dati Istat ci ricordano che il 6,3 milioni di unità di forza lavoro italiana non utilizzata, abbiamo 3,1 milioni di disoccupati; 3,2 milioni di persone che non cercano lavoro almeno nell’economia emersa. Dunque avanti Renzi e la sua linea Polettiana con la politica economica per il lavoro basata sulla fine del modello consociativo e neo corporativo propugnato dalla Cgil e caldeggiato (fino a ieri! oggi non più) da una Confindustria anch’essa capitanata da uno “squinzismo” instabile.

Avanti dunque con la riforma sul lavoro senza preoccuparsi di non scontentare la pattuglia dei parlamentari pidiessini rimasti nostalgicamente ancorati al modello della prevalenza del contratto nazionale su quello aziendale, al tabù della rigidità in uscita e alla riluttanza alla reintroduzione del criterio della produttività e della flessibilità. Dunque avanti con il lavoro liberato e produttivo perché quel 41% rende Renzi fortissimo, ma lo inchioda a dover dimostrare una maturità che fin qui non c’è stata evidente.

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