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Ecco perché Teheran è diventata una potenza inevitabile nel Medio Oriente

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I negoziati tra Usa e Iran sul nucleare, riaperti dall’accordo di gennaio, hanno sparigliato le carte del Medio Oriente. Non è una novità, ma ciò che colpisce è la scarsa attenzione che l’Italia sta dedicando al tema, forse perché esclusa dal tavolo delle trattative (dove, ricordiamo, siedono i Cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania).

Prova a rimediare la relativa povertà del dibattito di approfondimento un incontro patrocinato dal Centro studi americani e dall’Ispi, ieri a Roma, dove è intervenuto Rouzbeh Parsi, storico e analista geopolitico dell’Università di Lund in Svezia nonché ex-senior analyst dell’Institute of strategic studies, il think tank dell’Unione europea.

L’EFFETTO DEL NUOVO GOVERNO
Per Parsi, il cambio di governo a Teheran segna un’accelerazione positiva per lo status internazionale iraniano, perché il nuovo esecutivo ha abbandonato la retorica controproducente di Ahmadinejad, adottando un linguaggio più accettabile e fluido. Il primo risultato è stato spiazzare l’Arabia Saudita, abituata in passato a considerare Teheran come “costante negativa”, sempre esclusa dalle dinamiche del Golfo a guida Usa. Oggi il reprochement di Obama fa invece di Teheran una variabile da considerare.

UNA SOCIETA’ POST RIVOLUZIONARIA
Interessante la descrizione dell’Iran come “società post-rivoluzionaria”, che ormai sente come estranea la retorica rivoluzionaria, legata alla mobilitazione contro il nemico esterno ed interno. Un’annotazione che va insieme alla proposta di Parsi di leggere la mappa mediorientale non più come “gioco a somma zero” (tra Arabia Saudita ed Iran, per esempio), ma come “positive sum game” inclusivo. Una sponda per possibili riavvicinamenti con Ryhad, purché sia chiaro, chiosa Parsi, che la costante postura iraniana è quella di ritenere gli Stati Uniti “potenza esterna e non appartenente alla regione”. Un segnale anche all’Europa e all’Italia, che potrebbero certo fare di più per studiare un rapporto aperto, per passare da una “non-relazione disfunzionale” ad una “non-relazione funzionale”.

IL RUOLO GEOPOLITICO E MILITARE DI TEHERAN
Sulla struttura delle forze armate iraniane si è soffermato Nicola Pedde, analista geopolitico esperto di Iran e direttore dell’Institute for global studies. Per Pedde non vanno sopravvalutate le forze “proxy” come Hezbollah e i gruppi attivi in Iraq, Siria ed Afghanistan. In particolare Hezbollah ha dimostrato una notevole indipendenza rispetto a Teheran, già a partire dalla guerra in Libano nel 2006. La grande capacità di Teheran è stata quella di “regolare i flussi”, controllandoli, aprendoli e chiudendoli, sia rispetto alla crisi siriana (dove il capolavoro tattico è stato convogliare aiuti attraverso forze non convenzionali, riuscendo a lasciare ufficialmente Teheran fuori dal conflitto), sia rispetto ai gruppi jihadisti in Iraq e a quelli in Afghanistan occidentale.

SIRIA E AFGHANISTAN
Teheran “rientrata in gioco” farà sentire il suo peso su due importanti quadranti, dove in passato era esclusa. In Siria si è imposta sul campo, attraverso un’alleanza con Assad che non è ideologica (anzi, in termini ideologici le distanze sono grandi con il baathismo siriano), ma geostrategica, volta ad impedire che un emirato jihadista spezzi il legame con il Libano di Hezbollah. Parsi ha ricordato come l’Iran spinga per l’uscita da uno stallo che, in questo momento, fa comodo al regime di Assad, che lasciando attive le sacche di insorti può dimostrare al mondo la pericolosità della deriva qaidista. Sul fronte del ritiro americano dall’Afghanistan, che condivide una lunga frontiera con Teheran, l’Iran sarà molto attento, avverte Parsi. Il perimetro di sicurezza orientale del Paese verrà mantenuto, a partire dalla zona di Herat. In Iran, avverte Parsi, è in corso un dibattito interno per capire se i Talebani siano una minaccia da impedire o una forza con cui, nonostante i molti dubbi, trattare per il futuro del Paese.

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