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Infrastrutture, perché il débat public non mi convince

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Forse sotto la spinta dei recenti scandali Expo e Mose, il Governo ha accelerato sulla riforma della disciplina degli appalti e delle infrastrutture. I testi non sono ancora disponibili e, comunque, sono ancora soggetti a modifiche ma tutti gli organi di stampa che ne parlano accennano al “débat public”, procedura che dovrebbe consentire il coinvolgimento della popolazione nella fase iniziale del procedimento di formazione del provvedimento autorizzativo alla realizzazione dell’infrastruttura, costruendo così il consenso sociale e debellando la deleteria sindrome Nimby (Not In My BackYard).

CHE COS’E’ E PERCHE’ E’ INEFFICACE

In realtà, il débat public si presenta come una misura populista e inefficace, che sembra voler allargare gli spazi di democrazia diretta ma quasi certamente, se si procederà in tale direzione, non eliminerà il problema per il quale è stata proposta.
Il débat public è una procedura tipica dell’ordinamento francese, nata con legge del 1995, parzialmente modificata nel 2002, che istituì un’autorità indipendente denominata Commission Nationale du Débat Public, con il compito di organizzare il dibattito pubblico sui progetti di grandi infrastrutture. Lo scopo fondamentale è quello di mettere i proponenti e gli oppositori locali gli uni di fronte agli altri e costringerli a confrontarsi. Il problema è che gli esiti del dibattito pubblico non hanno alcun valore giuridico. Quindi, dopo (ulteriori) mesi dedicati a questa procedura, non c’è alcuna garanzia di eliminazione (o anche solo riduzione) dei rischi di impugnative più o meno strumentali dei provvedimenti autorizzativi emanati.

DI COSA HA BISOGNO L’ORDINAMENTO ITALIANO

Posto che nulla impedisce al proponente di un’infrastruttura di acquisire il consenso sociale illustrando preventivamente alla popolazione i vantaggi della stessa e le tutele adottate per minimizzarne l’impatto negativo sul territorio (cosa che molti già fanno autonomamente), l’ordinamento italiano in materia di infrastrutture ha soprattutto bisogno di maggior certezza del diritto, anche in relazione ai titoli autorizzativi. Questi sono troppo spesso impugnati da chiunque in modo più o meno strumentale, con un’incertezza che si protrae per il lungo tempo del relativo giudizio, durante il quale alcuni soggetti, tra cui i finanziatori, non sono disponibili a farsi carico dei relativi rischi.
Oggi in Italia la tutela dei terzi è assicurata ex post, dopo il rilascio del provvedimento da parte della pubblica amministrazione, ed è naturalmente una tutela piena. Il risultato è che dopo un lunghissimo e complesso iter autorizzativo, il progetto rimane esposto al rischio di una moltitudine di ricorsi, per i più disparati motivi, ad opera di terzi, alcuni dei quali agiscono solo strumentalmente per ostacolare la realizzazione dell’opera.

UNA TUTELA EX ANTE

Sarebbe molto più efficace passare ad una tutela ex ante, rafforzando il coinvolgimento dei terzi nell’iter autorizzativo e offrendogli la possibilità di formulare osservazioni in quella sede; conseguentemente, però, bisognerebbe ridurre enormemente i casi in cui sia possibile impugnare il relativo provvedimento, limitandoli, ad esempio, alle sole censure per violazioni procedurali, escludendo quelle di merito.

Questo è quanto avviene in molti Paesi di common law, tra cui il Regno Unito dove, per le infrastrutture di rilevanza strategica nazionale, i terzi sono coinvolti in tutte le fasi del procedimento amministrativo e possono esprimere i propri pareri. Una volta emesso il provvedimento, questo può essere impugnato solo per una judicial review davanti all’High Court.

UN CONSIGLIO

Benissimo la partecipazione sociale al processo di formazione del provvedimento, purché ciò non si risolva in un ulteriore allungamento e complessità del procedimento senza aggiungere alcun grado di certezza.

Paolo Esposito, Avvocato

Partner  CBA Studio Legale e Tributario


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