Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
L’allarme risuona adesso con lugubre urgenza, ed è giusto. Ma anche, da molte parti, con i toni della sorpresa: come se gli addetti avessero scoperto solamente ora l’importanza e la gravità di una crisi che pare scoperta oggi e che è invece maturata lentamente concedendo così, a ciascuno, di prenderne i tempi e le misure.
UN RITARDO STORICO
Invece questo è accaduto con un ritardo davvero storico, soprattutto a Washington. Nella Casa Bianca abita un uomo di buona volontà dedito alle più profonde riflessioni e che aveva capito più presto e meglio di chiunque altro che cosa si sarebbe dovuto fare e che cosa evitare. Ci ha lavorato anche con pazienza, forse troppa, ma più probabilmente a causa delle tante e pesanti limitazioni inerenti al suo potere.
L’ATTENDISMO DI OBAMA
Dicono di Barack Obama che pensa troppo e non decide abbastanza. C’è del vero per motivi vari, alcuni radicati nella struttura stessa del potere in America, altri più contingenti. Di conseguenza, le sue diagnosi sono molto spesso giuste, ma non si traducono in cure, tanto meno chirurgiche. Dipende dal suo carattere e dall’accumularsi degli ostacoli. Egli viene giudicato di questi tempi soprattutto sugli esiti della sua politica economica, ma il giorno in cui le cronache che lo riguardano diventeranno Storia, qualcuno si sentirà finalmente di riassumerle in una parola, in un nome: Iraq. All’indomani stesso delle stragi dei terroristi di Al Qaida a New York e a Washington, mentre tutto il paese comprensibilmente ruggiva per l’indignazione che reclamava una risposta subito, un giovane senatore dell’Illinois ammoniva che la reazione più efficace è quella che conosce limiti ben precisi e che la riflessione è in certi casi la prima fra le superarmi di cui gli Stati Uniti abbondano.
IL CONFRONTO CON GEORGE W. BUSH
Ma alla Casa Bianca, in quelle ore drammatiche, non sedeva lui, bensì un uomo che, come politica ma soprattutto come carattere, era l’esatto contrario: Barack Obama riflette troppo e qualche volta arriva tardi. Ha «troppa testa». George W. Bush non riflette abbastanza: ha «troppo cuore». Un tratto di carattere che ebbe, e forse ancora ha, conseguenze in Afghanistan, nel luogo cioè della meno discussa delle sue iniziative belliche, ma soprattutto in Iraq. Le cronache delle ultime ore mostrano una avanzata blitz verso Baghdad, il rapido collasso del regime. Parole e immagini da primavera 2003. Solo che stavolta i colpi di maglio sono degli sconfitti di allora, degli integralisti sunniti, dei fautori di un nuovo Califfato nel Medio Oriente, insomma degli allievi di Osama Bin Laden. Le truppe americane si sono appena ritirate dall’Iraq, compreso il Nord del paese da cui era cominciata la loro avanzata e dove ora cadono una dopo l’altra le roccaforti del potere che Washington aveva installato dopo avere distrutto il regime di Saddam Hussein e ucciso il dittatore stesso.
PROBLEMI IRRISOLTI
In Iraq doveva cambiare tutto e ora ci accorgiamo che, forse, non è cambiato niente. E altrettanto poco, cosa ancora più grave, è mutato nel pezzo di mondo che gli sta attorno. Dopo un caos di 12 anni, si vanno riformando i fronti, le alleanze, gli odi di allora. Saddam Hussein era un dittatore «laico» di marca sunnita, antagonista da sempre dell’Iran sciita e del più violento fondamentalismo islamico. L’America di Reagan lo aveva sostenuto nella sua guerra contro gli ayatollah di Khomeini e aveva chiuso un occhio anche sul regime, omonimo anche se duramente rivale, in Siria. Nel Medio Oriente esisteva un tristo «equilibrio» fra dittature, che stabilizzava in qualche modo la regione e la capitale mondiale del petrolio.
UNA PARTITA COMPLESSA
Ora, dopo i diretti interventi americani a Baghdad (e a Kabul), i paesi hanno cambiato regimi, ma le passioni e gli odi sono sempre quelli e così i metodi del terrore. La partita si è fatta ancora più complessa dopo il pot pourri di iniziative che vanno sotto il nome di Primavera araba e che sono risultate nell’abbattimento di altri regimi alla Saddam, dall’Egitto alla Libia, mentre è in corso da tre anni un conflitto altrettanto sanguinoso in Siria. Col risultato che Tripoli è la sede di una guerra fra bande che contamina anche i vicini africani e, a Damasco, l’Occidente sostiene da tre anni un coacervo di ambizioni fra cui emerge sempre di più la fazione jihadista legata anch’essa all’eredità di Bin Laden. Sono gli stessi clan, le stesse bandiere, gli stessi slogan all’offensiva in Iraq e bloccati invece ora sulla difensiva in Siria. L’intera regione è più che mai in preda alle fiamme. Più che mai a Washington si rifanno i conti, si chiedono dei perché, si rivedono le decisioni prese: dal presidente che pensa troppo ed esita ma soprattutto da quello che pensò troppo poco.