Cosa vuol dire scrivere di manager per un ricercatore di mercato? Vuol dire uscire un po’ dal seminato, senza prendere le strade maestre della formazione e della consulenza organizzativa. Ho varcato la soglia di centinaia di aziende e interagito con manager che commissionavano le nostre ricerche a tantissimi livelli: dall’amministratore delegato al responsabile delle ricerche.
Quando ho ricevuto l’incarico per questa indagine, ho visto realizzarsi un sogno che coltivavo da tempo: quello di fare un passo in là, bypassando la forma e la maschera sociale per contattare la donna o l’uomo che avevo di fronte. Parlando con il presidente Giorgio ci siamo ritrovati sullo stesso terreno della ricerca sociale, con lo stesso bisogno di uscire dai mantra delle scuole di management per avventurarci nel terreno dell’esplorazione antropologica, indagando i pensieri, le abitudini, le passioni in definitiva le vite dei manager.
UNA VIA RISCHIOSA DA PERCORRERE
Effettivamente fin da subito, con Emma Villa, ci siamo rese conto di aver imboccato una via rischiosa. Il quadro che si componeva non rispondeva a immagini conosciute né a convinzioni consolidate. Stavamo effettivamente scoprendo qualcosa di nuovo. Tutto quel portato pulsante, che soltanto intuivo nel corso della mia vita professionale. Ne derivava un leggero turbamento, accentuato dalla sensazione sempre più forte di afferrare una materia sensibile. Sempre più aumentava la consapevolezza dell’importanza di questo lavoro.
COSA VUOL DIRE PARLARE DI MANAGER
Parlare dei manager non significava parlare di una categoria professionale come tutte le altre. I manager, come abbiamo deciso di chiamarli (e non dirigenti), costituiscono un asse portante del nostro sistema produttivo, coloro che trainano la locomotiva da cui poi a catena dipendono un’infinità di condizioni con un impatto enorme sulla vita di tutti noi. Come ben sanno i manager, ma di questo si è parlato molto poco nelle interviste per Federmanager1, sulle loro spalle gravano le responsabilità della crisi storica che ci attraversa, ma crescono anche i frutti di un processo di cambiamento ed evoluzione di cui si sa ancora poco. Araba fenice dei nostri tempi, sulle loro ceneri si evolve il nostro futuro.
Per esigenze di copertina, per attirare l’attenzione del pubblico, sarebbe facile dichiararli “animali in estinzione”, con una provocazione buona a strappare titoli di giornale. Vivremo in un mondo senza politici senza banchieri né giornalisti e anche i manager non ci saranno più. Non è così: la società stessa è andata uniformandosi a loro, assorbendone gli strumenti a livello di massa. Siamo tutti un po’ i manager di noi stessi e da essi mutuiamo strumenti e soluzioni. Siamo diventati più efficienti e capaci di ridurre la complessità, pragmatici e comunicativi presentandoci al mondo attraverso i social network.
D’altra parte, è anche nel mondo manageriale che si ricercano i nuovi strumenti per affrontare la complessità quotidiana: i bilanci famigliari assomigliano sempre più a budget, l’amministrazione della casa a una gestione aziendale e così via. Quando si lamentano i vizi dell’immobilismo italiano e s’invocano competenze e meritocrazia, si fa appello all’intervento di persone capaci, ovvero orientate al risultato, diversamente da quanto pare accadere
nel grande calderone della politica e della parapolitica italiana.
ERRORI, PRINCIPI E POSSIBILITÀ
Eppure, anche nel mondo manageriale italiano, si radicano antiche storture, che vedono l’affiliazione prevalere sull’esercizio di leadership reali e dinamicamente fondate sul primato nel gruppo. Poca autonomia, scarsa propensione alla delega, sono luoghi comuni attribuiti alla situazione italiana, che rischiamo di spuntare le armi dei nostri dirigenti covando risentimento e frustrazione.
Non bastano, a sanare la situazione, MBA e i princìpi astratti che li esprimono, come ben illustra il professor Sapelli nell’intervista che, insieme a Squinzi, Camusso e al Cardinal Bagnasco, conclude questa pubblicazione.
Il mestiere del manager è, prima di tutto, una prassi e un’esperienza in cui si mettono in gioco le capacità e i valori della persona: come ci raccontano le interviste condotte per Federmanager, in questo che non vuole essere un ritratto bensì un autoritratto dei manager italiani, si tratta di “risorse sovraumane”, per il carico del compito da essi percepito.
La missione percepita è quella di salvare l’azienda, ma in qualche modo anche la società, nella consapevolezza del carattere esemplare della loro condotta. Poco importano oggettività e veridicità del dato: quando si indagano le percezioni, diamo per scontato di lavorare su un piano più vicino al cuore che al cervello degli intervistati.
LO SCOPO DELLA RICERCA
Riportiamo qui, dunque, non tanto ciò che i manager sono, già descritto da centinaia di statistiche e studi comportamentali, quanto quello che ritengono di essere e vorrebbero essere. Qualcosa più vicino ad un racconto che a una fotografia. Una narrazione idealizzata di sé che, tuttavia, significativamente risuona con le parole delle testimonianze riportate in coda al libro. Ritroviamo la stessa valorizzazione di valori profondi, a partire dall’impegno, dalla perseveranza, dal senso di responsabilità e dalla sete di conoscenza. Tutti movimenti individuali e sociali, che maturano sottotraccia e richiedono di emergere a un livello più allargato rispetto al singolo perimetro aziendale, sempre meno capace di comprenderne la portata.
Non è più in gioco il destino di questa azienda, ma il modello stesso alla base delle organizzazioni, dei principi che le ispirano e delle regole che le governano. Il ruolo del manager appare oggi imbrigliato in realtà produttive ispirate al passato.
COSA MANCA, E COME CONQUISTARLO
Un ruolo che vive, dunque, uno stato di sospensione dinamica simile a quella che investe altri livelli dell’economia e che trova nella società al tempo stesso la sua origine e la sua destinazione. Come per il resto della società, si tratta di un compito che ha a che fare prima di tutto con la contraddittorietà delle spinte che muovono la storia del presente. Prima di ricodificare teorie di leadership, sarà necessario accogliere il contrasto tra la saggezza del conservare e la follia del distruggere, come matrici diun’infinità di antinomie da risolvere, come quella tra la saggezza e il coraggio o tra l’appartenenza e la libertà.
Oggi sono tante le condizioni che sembrano mancare per la piena realizzazione di questo processo. L’Italia “non è un Paese per manager” si potrebbe dire parafrasando il titolo dei film dei fratelli Coen, ma proprio le sue anomalie potrebbero diventare il terreno fertile per un’operazione culturale in grado di ribadire i nostri primati e dare i suoi frutti a livello globale.
Si tratta di un’operazione culturale più sostanziale che formale che chiama in causa la collettività allargata dei lettori di questo libro e di tutti coloro che ne vorranno sviluppare spunti e considerazioni.