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L’Italia di cui nessuno parla: quella creditrice

L’Italia nascosta, quella celata dalla montagna dei nostri debiti, è quella che meglio dovremmo conoscere se davvero volessimo comprendere perché mai la nostra classe dirigente sia così sollecita verso i nostri creditori esteri.

Le nostre obbligazioni, infatti, esagerate come siamo noi, celano una circostanza che spiega molto bene perché l’Italia abbia così a cuore gli interessi di chi ci presta i soldi. Ossia il fatto che siamo anche noi creditori dell’estero, e per giunta rilevanti.

E poiché cane non morde cane, figuratevi se un creditore si perita di farlo con un collega.

Questa evidenza contabile viene sommersa dai saldi netti della nostra posizione estera, ormai negativa per circa il 30% del Pil, divenendo perciò essa stessa il problema che onnubila le facoltà di analisi dei tanti commentatori che si esercitano d’economia nel nostro dibattito pubblico, almanaccando consigli ed esortazioni da pulpiti che sovente hanno tutto l’interesse a difendere i propri interessi esteri invece di quelli interni, essendo infine collocati all’estero, questi interessi, piuttosto che in Italia.

Così l’Italia nascosta, quella creditrice, diventa un dettaglio del nostro discorso economico, quando invece, a ben vedere, è degna comprimaria, però dietro le quinte, del nostro tormentoso presente. Perché se davvero fossimo come ci rappresentano, queste cronache, già da un pezzo saremmo falliti. E invece reggiamo l’urto della crisi, e anzi, l’Italia creditrice muove significativi passi in avanti, come d’altronde anche quella debitrice. Che però guadagna gli altari della cronaca, al contrario della prima.

Sicché mi è sembrato far opera di riequilibrio raccontarvi quanto siamo attivi verso l’estero, invece di quanto siamo passivi. Riequilibrio informativo, almeno, giacchè quello contabile necessiterebbe di ben altra sollecitudine per essere risolto.

All’uopo mi giovo degli ultimi dati forniti dalla Banca d’Italia sulla nostra posizione estera e di un paio di database messi gentilmente a disposizione dal Fondo monetario internazionale, ossia quello sugli investimenti di portafoglio e sugli investimenti diretti. La lettura incrociata dei dati ci fornisce alcune informazioni utili a comprendere la temperie nella quale siamo immersi, oltre a contribuire a spazzar via la nostra più peculiare caratteristica: una certa pelosa ipocrisia che, coltivata con deciso piglio dalle nostre élite, scivola lenta ma implacabile verso la nostra base sociale, contaminandola con una mefitica aria densa di lamentazioni.

I dati perciò. A fine marzo 2014, ci dice la Banca d’Italia, i nostri compatrioti godevano di attivi esteri per 1.915 miliardi di euro che certo non bastano a compensare i 2.422 di passività, esibendo perciò una posizione netta negativa per 506 miliardi, ma che però restituiscono un’immagine di noi stessi assai diversa da quella di poveracci che spesso ci rappresenta la stampa e che viene riverberata dal dibattito pubblico.

Se scomponiamo gli attivi scopriamo altre informazioni interessanti, che gettano una luce diversa sulla tanto declamata crisi che sta devastando il nostro Paese. Che è circostanza verissima, ma incompleta. Sta devastando parte del nostro Paese, non tutto.

Se risaliamo la serie statistica al marzo 2013, scopriamo ad esempio che i nostri investimenti di portafoglio all’estero, che valevano 795 miliardi, un anno dopo valgono 842, dei quali 454 per azioni detenute oltreconfine (erano 387 un anno prima) e 387 per titoli di debito (in calo rispetto ai 408 di marzo 2013). Il boom dei mercati azionari, insomma, ha portato fortuna ai paperoni italiani che hanno comprato azioni estere.

A far sprofondare il saldo degli investimenti di portafoglio, tuttavia, sono i corposi acquisti di debiti italiani che l’estero ha effettuato nell’ultimo anno. Gli stranieri hanno aumentato il valore della loro esposizione azionaria, passata dai 140 miliardi di marzo 2013 ai 216 del 2014, complice certo il rialzo dei corsi, ma soprattutto la componente obbligazionaria, quella pubblica in testa, che è passata da 941 miliardi a 1.048.

Per capire quanto pesi il debito pubblico acquistato dai non residenti sulla nostra posizione estera dobbiamo servirci di un’altra statistica di Bankitalia, quella sul debito estero, che viene scomposto nei vari settori dell’economia. A livello aggregato i nostri debiti esteri sono aumentati dai 1.911 miliardi del marzo 2013 ai 1.922 di marzo 2014. Gran parte de boom si deve alle amministrazioni pubbliche, il cui debito estero è passato dai 670 miliardi di marzo 2013 ai 752 di marzo 2014. In particolari le obbligazioni di lungo termine sono passate dai 607 miliardi del 2013 ai 683 di marzo 2014. L’estero insomma, è tornato a comprare debito pubblico italiano, ed è facile capire perché: ai tassi attuali sono un ottimo affare.

Giova anche rilevare che tutti gli altri settori hanno diminuito il loro debito estero. Lo Stato, quindi, è l’unico che aumenta la sua esposizione, mentre i privati lentamente retrocedono.

Altrettanto interessante è osservare la voce investimenti diretti all’estero. A marzo 2013 tali attività, che raccontano di quanto gli investitori italiani, imprese in testa, si stiano internazionalizzando, valevano 407 miliardi di euro. Un anno dopo sono 433. E solo la crescita costante di investimenti diretti dall’estero, che per noi sono passività, passati dai 273 miliardi di marzo 2013 ai 300 di marzo 2014, ha leggermente ridotto il saldo netto a un attivo di 133 miliardi a fronte dei 134 del 2013.

Se adesso andiamo sui DB del FMI scopriamo anche altre cose. A fine 2009 l’Italia aveva investimenti diretti all’estero per 486 miliardi di dollari, circa 357 miliardi al cambio attuale, che sono diventati 535 miliardi di dollari a fine 2012, ossia 393 miliardi di euro sempre al cambio attuale, vicini quindi ai 407 miliardi che Bankitalia aveva rilevato nel primo trimestre 2013, quando inizia la sua serie.

In sostanza, le imprese italiane hanno visto crescere il valore dei propri investimenti esteri di circa 80 miliardi di euro fra il 2009 e il marzo 2014. Da questo punto di vista non dovrebbero lamentarsi, al contrario di quanto hanno il diritto di fare i lavoratori italiani, visto che nel frattempo la disoccupazione interna è esplosa. Eppure le imprese, con quelle internazionalizzate in testa, si lamentano a gran voce.

Se guardiamo gli investimenti di portafoglio, la situazione cambia poco.

A fine 2009 gli italiani avevano 1.116 miliardi di dollari investiti all’estero, dei quali circa 264, investiti in Lussemburgo (il 24%) ed è inutile che vi spieghi perché. Parliamo in totale, sempre al cambio attuale di circa 820 miliardi di euro.

A metà del 2013 gli investimenti di portafoglio all’estero si erano leggermente ridotti, a 1.045 miliardi, circa 768 miliardi al cambio attuale. Interessante però notare che era aumentata la quota di fondi finiti in Lussemburgo, ormai arrivata a quasi 350 miliardi di dollari, pari al 33% dell’esposizione. La reazione alla crisi, insomma, è stata portare i soldi là dove fruttano meglio.

Tutto questo mentre lo Stato aumentava il suo debito pubblico di un 20% di Pil, aumentando l’esposizione estera e patendo gravi crisi dello spread.

Non si può certo accusare gli italiani di essere patriottici.

Per completare l’analisi è assai utile osservare le nostre controparti.

I nostri investimenti diretti all’estero si concentrano in Olanda, poi Germania, Spagna, Austria e Francia (in quest’ordine secondo i dati 2012 del FMI), mentre dall’estero gli investimenti diretti in italia arrivano da Olanda, Francia, Lussemburgo, Regno Unito e Germania.

Siamo quindi inseriti nei paesi core, dove gli investitori italiani all’estero hanno tutto l’interesse a stare per non perderci.

Lato investimenti di portafoglio, i nostri investimenti si concentrano in Lussemburgo, Francia, Irlanda, Germania e Stati Uniti (sempre in quest’ordine secondo i dati FMI di giugno 2013), mentre sappiamo già quanto dipendiamo dalla morsa franco-tedesca per i prestiti che ci fanno dall’estero.

Quindi anche lato prestiti di portafoglio, l’Italia creditrice investe nei paesi core, ha tutto l’interesse che i PIGS (Irlanda) stiano in riga e che l’intera costruzione euromonetaria sia salda.

Non c’è da stupirsi che l’Italia creditrice ami l’Euro-pa.


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