Bella grossa, persino in crescita e vagamente inquietante la bolla asiatica s’aggira, paradossalmente leggera, virando verso l’Occidente indaffarato a far quadrare conti che mai potranno quadrare, incurante perciò, e sostanzialmente immemore, dei guasti che l’Oriente ha fatto e consumato anche in tempi recenti.
L’Occidente, d’altronde, non può occuparsene. Deve vedersela col rischio di una stagnazione secolare, come l’ha tratteggiato la Bis nella sua ultima relazione annuale, che s’aggira sul suo capo invecchiato e sulle sue forze ormai esauste, dove da un parte gli investimenti rallentano, la produttività declina e neanche i consumi si sentono tanto bene, atteso che gran parte della domanda aggregata, quella pubblica, è gravata dall’esigenza di rendere sostenibile la politica fiscale, mentre quella privata è fiaccata dalla disoccupazione e dall’ampia tesaurizzazione che la marea montante degli anziani fa della ricchezza.
L’Occidente, quindi, non se ne occupa. E anzi spera, dimenticando la brutta fine che fa chi di speranza campa, che proprio dall’Asia arrivino forze fresche capaci di rivitalizzare le sue stracche industrie di beni e servizi.
La speranza del secolo asiatico, perciò, ultima chimera del capitalismo terminale dopo quella contrabbandata nei primi Duemila dai Brics, ovvero i sedicenti campioni delle economie emergenti, che troppo presto, ahinoi, hanno mostrato la corda della loro inadeguatezza strutturale. E’ bastata la minaccia della Fed di terminare la bonanza e gli emergenti si son trovati intrappolati nei loro debiti, e pure malamente.
Sicché rimane l’Asia, emergente anch’essa, a ben vedere, eppure chissà perché ancora capace di restituire allo stupefatto Occidente il sogno di una crescita illimitata ed eterna, malgrado l’esperienza avrebbe dovuto insegnarci che tale sogno ha la fisionomia dell’incubo.
L’Asia, e la Cina in particolare, ovviamente, ossia l’altra America, quella coi soldi veri degli americani custoditi nelle riserve e un oceano di bocche da sfamare coi prodotti (e i servizi) dell’Occidente.
Senonché questi paesi, alimentati dalle nostre speranze, hanno finito col diventare pericolosi. Sono all’apice di un ciclo finanziario di espansione il cui picco, una volta doppiato, potrebbe rivelarsi rovinoso, per loro, come è già successo a fine ’90, ma soprattutto per noi tutti, atteso che dalla fine ’90 il mondo si è ulteriormente globalizzato.
E’ sempre la Bis a istruirci, e forse dovremmo ascoltarla.
Per comprenderla però serve un po’ di noiosa teoria economica.
Il concetto di ciclo finanziario, ancora in erba nella vasta prateria della teoria, non è stato ancora pienamente definito ma si basa sull’incorporazione dell’idea che alcune variabili finanziarie, sia di quantità che di prezzo, fluttuino congiuntamente.
I ricercatori della Bis hanno isolato il concetto che esista una connessione assai stretta fra l’andamento degli aggregati creditizi e i prezzi degli immobili. Sicché, monitorando queste grandezze è possibile estrapolare un indicatore che sommarizzi se e come un’economia si trovi in una fase di boom o bust finanziario.
Una rapida espansione del credito, spiega infatti la Bis, specie del credito ipotecario, sospinge verso l’alto i prezzi degli immobili, i quali a loro volta accrescono il valore delle garanzie reali e quindi l’ammontare di credito che il settore privato può ottenere. “È questa interazione di mutuo rafforzamento fra vincoli di finanziamento e percezioni del valore e dei rischi che è stata storicamente all’origine dei più gravi problemi macroeconomici di allocazione delle risorse”, conclude.
I cicli finanziari, così individuati e misurati presentano alcune caratteristiche morfologiche che li differenziano dal normale ciclo economico. Intanto sono più lunghi, estendendosi d’abitudine per circa 15-20 anni a fronte degli uno-otto del ciclo economico. Poi, nei punti di massimo (ossia quando inizia il bust) il ciclo finanziario coincide con una crisi bancaria. Quindi risulta che i cicli finanziario sono interrelati e sincronizzate fra le diverse economia, atteso che la libertà di movimento dei capitali diminuisce gli spread a dà modo ai capitali esteri di allocarsi dove meglio ritengano, salvo poi ritrarsi quando c’è il bust.
Basta teoria, guardiamo la pratica.
La pratica è un insieme di grafici dove la Bis applica la sua econometria per misurare il ciclo finanziario in diversi paesi del mondo.
Viene fuori che alcuni paesi, in particolare Spagna, Grecia, Italia e Portogallo sono in fase di bust finanziario relativamente alla crescita del credito, dei prezzi immobiliari e dell’indicatore finanziario di medio termine già dal 2010, anche se tale bust è rallentato negli ultimi quattro trimestri.
Dimenticavo: per essere sospetti di bolla tutti e gli indicatori devono essere in territorio positivo.
Ebbene, gli unici paesi che sono in pieno boom del ciclo finanziario sono la Cina, dove credito e prezzi degli immobili continuano a salire, e la crescita del prodotto è guidata da un 45% di investimenti pubblici che anche la Bis giudica poco sostenibile, la Turchia, dove tali indicatori sono addirittura aumentati negli ultimi quattro trimestri, la Svizzera, che però di recente ha rallentato, e il Brasile.
Ma soprattutto è la bolla asiatica presa nel suo insieme che spaventa.
Credito e prezzi degli immobili non accennano a diminuire nell’intera area geografica e l’indicatore finanziario, pure se ha rallentato, è ancora in territorio positivo.
In questo contesto i segnali che si sia arrivati al picco del ciclo sono numerosi. “Anche le crescenti insolvenze nel settore immobiliare cinese forniscono indicazioni in tal senso”, nota la Bis.
La sensazione che una certa precarietà circondi l’Asia si rafforza quando andiamo ad analizzare i cosiddetti indicatori di allerta precoce che, ricorda sempre la Bis, per quanto discutibili nella loro conformazione teorica “si sono rivelati sufficientemente affidabili nell’individuazione di andamenti insostenibili del credito e dei prezzi degli immobili in passato”.
Tali indicatori sono costruiti analizzando lo scostamento del rapporto fra credito e Pil di un paese dal trend di lungo periodo e lo stesso scostamento dal trend del prezzo degli immobili. A queste due variabili si aggiunge quella determinata dall’indice del servizio del debito.
La logica è alquanto chiara: tanto credito, prezzi alti, quindi tanto debito privato e relativi interessi da pagare. Tutto ciò espone il settore privato al rischio di tassi, da un parte, e a quello di calo dei corsi immobiliari, dall’altra, che diminuendo il patrimonio, e quindi le garanzie, mette a rischio il servizio del debito. Il meccanismo che abbiamo visto negli Usa dal 2008 in poi, quando il paese aveva già iniziato la fase decrescente del suo ciclo finanziario.
Ebbene, questi indicatori di allerta precoci segnalano un livello estremamente elevato per la regione asiatica, sia lato gap credito/Pil, sia lato prezzi immobili. Più rassicurante l’indice di allerta sul servizio del debito, tranne che per la Cina, che invece ha il livello più alto al mondo. Nel resto dell’Asia l’indicatore è più basso, ma, spiega la Bis “un aumento dei tassi di interesse spingerebbe tali indici a livelli critici anche in varie altre economie”. Nella simulazione basterebbe che i tassi salissero di 250 punti base per innescare l’allarme rosso.
“I dati storici – avverte la Bis – mostrano che a un valore del gap credito/PIL superiore a 10 punti percentuali sono solitamente seguiti nell’arco di tre anni gravi difficoltà del settore bancario”.
Bene: l’Asia, nel suo complesso, è arrivata a 19,9%. La Cina al 23,6.
Come una bolla di sapone, anche quella del credito crescendo s’infragilisce.
Poi scoppia.