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Ecco perché l’aumento renziano dell’aliquota sulle rendite finanziarie favorirà la Germania

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Tino Oldani, apparso sul quotidiano Italia Oggi.

Come è già accaduto con i due precedenti governi (Monti e Letta), anche con quello di Matteo Renzi i contribuenti italiani sono chiamati a pagare più tasse che, invece di aiutare l’economia nazionale a uscire dalla recessione, finiscono per consolidare quella tedesca. Un autogol pazzesco, che mette a nudo una volta di più le contraddizioni tra gli slogan del governo e i risultati concreti. Un esempio, tra i tanti? L’aumento dal 20 al 26% dell’imposta sulle rendite finanziarie scattato dal primo luglio porterà un maggior incasso per l’erario di 2,6 miliardi. In teoria, questa maggiore tassa sul risparmio di milioni di famiglie dovrebbe servire a coprire la riduzione del 10% dell’Irap per le imprese, che a seguito di questo ridicolo sgravio dovrebbero guadagnare in competitività e fare nuovi investimenti. Pura illusione.

La maggiore tassazione dei rendimenti rischia semmai di deprimere il mercato delle obbligazioni societarie, che negli ultimi anni erano diventate, per le imprese, una fonte di liquidità importante, alternativa al credito bancario, sempre più difficile da ottenere. Il mercato delle obbligazioni societarie vale alcune decine di miliardi di euro l’anno, e ridurne il perimetro con l’aumento delle imposte sui rendimenti significa ridurre l’ossigeno finanziario che consente alle nostre imprese di respirare, non certo di navigare nell’oro. Non solo. Il maggiore gettito dell’imposta sui risparmi finirà per alimentare non solo lo sgravio Irap, ma anche il flusso dei finanziamenti italiani all’Europa, che da sempre sono superiori ai fondi che tornano indietro nel nostro Paese. Un gap che non dipende dall’Ue, ma dalla incapacità del governo nazionale e di quelli regionali di predisporre adeguati programmi di investimenti. E fin qui, nulla di nuovo.

Ora però c’è di peggio. Da quando è stato istituito l’Esm, il Fondo europeo salva-Stati (in realtà salva-banche), l’Italia è tenuta a contribuire al suo capitale, come gli altri Paesi dell’eurozona. Il primo azionista è la Germania, che avendo il 27,1% ha già versato 17,3 miliardi e ne deve altri 21,7. L’Italia, come terzo azionista (dopo la Francia), ha versato 11,4 miliardi nel 2013, ai quali ne aggiungerà altri 14,3 quest’anno. Così dai 64 miliardi di capitale del 2013 si salirà a 80 miliardi a fine anno. L’Esm ha una potenza di fuoco teorica di 700 miliardi, che può raccogliere emettendo bond sui mercati. Di norma, però, deve scegliere i bond giudicati più affidabili, mai quelli sotto la doppia A (il che esclude i Bond italiani). Per questo acquista prevalentemente Bund, i titoli di Stato tedeschi, che hanno un rendimento molto basso, ma giudicato più sicuro di tutti gli altri Bond europei.

In questo modo, grazie ai generosi acquisti di Bund compiuti dall’Esm (anche con i miliardi italiani, attinti dalle tasse), i titoli tedeschi decennali mantengono un tasso molto basso e, di riflesso, ampliano lo spread con i titoli similari degli altri paesi, facendo così salire anche il tasso d’interesse sui prestiti bancari. Proprio per questo le imprese manifatturiere italiane pagano il credito bancario più caro delle imprese tedesche loro concorrenti. Non solo. Grazie a questo modus operandi dell’Esm, i Paesi deboli dell’eurozona stanno finanziando in maniera cospicua la Germania, sia direttamente (con i fondi Esm), sia indirettamente (con lo spread, che si riflette sui tassi bancari e sulla competitività).

Di fronte a questo scenario, ha dell’incredibile che in Germania l’opinione pubblica sia convinta che i paesi deboli dell’eurozona vivono a sbafo, a carico dei contribuenti tedeschi. Ma è ancora più inaccettabile che il governo italiano, di fronte all’Eu, si limiti a piatire più flessibilità sui conti pubblici, invece di porsi a capo dei paesi più deboli per rivendicare una diversa gestione dei fondi dell’Esm. Sarebbe un’altra battaglia che darebbe un forte significato politico al semestre di presidenza italiana, oltre a quella per separare le banche casinò da quelle commerciali (vedi ItaliaOggi di ieri).

Quanto alla correzione di rotta sui fondi Esm, il premier Renzi potrebbe fare proprio un suggerimento che gli ha lanciato alcuni giorni fa sulla Repubblica l’economista Giorgio Ruffolo, 88 anni, negli anni Settanta padre dei primi tentativi di programmazione economica in Italia, definiti dopo il naufragio «un libro dei sogni». A dispetto dell’età e di quel fallimento, Ruffolo è tuttora un intellettuale vivace, capace di sorprendere in positivo. Insieme a Stefano Sylos Labini, sostiene che i fondi Esm «sono oggi gestiti in modo totalmente inefficace», mentre andrebbero «utilizzati immediatamente per finanziare un piano di investimenti continentale» in nuove infrastrutture. Un piano che dovrebbe comprendere anche la riforma dello statuto della Bce, il lancio degli eurobond e la messa in comune dei debiti dell’eurozona.

Un altro libro dei sogni? Non direi. È vero che a questi obiettivi la Germania della signora Merkel si è più volte dichiarata contraria. Ma sono gli stessi obiettivi indicati da un piano analogo proposto dal presidente francese François Hollande, un socialista come Ruffolo. Un piano di tipo keynesiano che un premier come Renzi, che si dice di sinistra, non dovrebbe liquidare con un’alzata di spalle. Soprattutto quando è del tutto evidente che il suo governo sta facendo pagare agli italiani più tasse che, piaccia o no, finiscono per ingrassare la ricca Germania.



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