Basta con i piagnistei, basta con gli auspici volti ad ottenere la giusta flessibilità nell’applicazione delle regole del Fiscal Compact, e soprattutto basta con le fustigazioni inutili. L’Italia deve riprendere a crescere ed ha tutte le risorse necessarie per farlo, senza dover chiedere aiuti, permessi, nè sconti a nessuno. Non solo continua ad essere il terzo Paese dell’Unione Europea, ed il secondo per produzione manufatturiera, ma è stato anche l’unico che a partire dal 1992 ha sempre rispettato il Trattato di Maastricht, sia per quanto riguarda l’andamento del deficit sia il processo di riduzione del debito pubblico. Ed è l’unico Paese che ha sempre anteposto il risanamento finanziario alla crescita. Ma lo ha fatto utilizzando sempre la stessa ricetta sbagliata, che prevede l’accumulazione dell’avanzo primario di bilancio: una cura che, dopo la crisi del 2011, si è rivelata nefasta.
Sono queste le verità che vanno dette agli Italiani: non quelle melense e stucchevoli di chi continua a ripetere che viviamo da anni al di sopra delle nostre possibilità e che ci attendono duri sacrifici chissà ancora per quanto tempo. Non siamo un Paese tutto da buttare, tutto da riformare, tutto da rivoltare come un calzino che i tanti mestieranti del catastrofismo e mai del sano riformismo auspicano per dare finalmente una spallata al nostro sistema sociale ed economico. Un assetto basato ancora sulla centralità della persona umana e non sull’individualismo anomico, sulla solidarietà familiare e non sul disfacimento dei vincoli, sulle piccole e medie imprese capaci di essere competitiive a livello internazionale e non sul globalismo che distrugge ogni giorno il saper fare, la qualità e l’identità in nome del prezzo più basso. Dello sfruttamento del lavoro senza né remore né riserve.
Il risanamento delle finanze pubbliche non passa dalla tassazione distruttiva del nostro sistema imprenditoriale, dall’annichilimento dei redditi disponibili, da una idiota e vessatoria imposizione patrimoniale sulle prime e sulle seconde case che sono state acquistate con il risparmio frutto del lavoro di intere generazioni e che ne sta azzerando progressivamente il valore immobiliare e la sua stessa appetibilità prospettica. Dovemmo liberarcene, svenderlo, per comprare finalmente i tanti prodotti della finanza derivata, quelli che promettono sempre nuovi rendimenti e mai il giusto benessere che deriva dal godimento della ricchezza. Il risanamento non passa dalla fustigazione della esclusività e dei consumi di prestigio, quelli su cui cerchiamo quotidianamente di costruire l’attrattività del made in Italy: dai prodotti manifatturieri allo stile, dalle bellezze naturali alle città d’arte.
Se non vogliamo rimanere travolti dallo tsunami del pauperismo che sta distruggendo le famiglie, le imprese, le banche e gli stessi conti pubblici, dobbiamo abbattere drasticamente il debito pubblico, con una operazione straordinaria che può essere condotta senza svenare gli italiani e senza violare i patti con i sottoscrittori dei titoli sul mercato finanziario. Dobbiamo farlo perché è l’unica zavorra che ci porta a fondo dal 1993, che ci ha messo a rischio sui mercati nell’estate del 2011 e che ci potrebbe nuocere ancora in modo drammatico. Tutti i Governi che fin qui si sono susseguiti hanno adottato la stessa terapia, un anno dopo l’altro, quella dei sacrifici fiscali: un prelievo continuo di risorse che tanto più è violento per accelerare il preteso risanamento tanto più danneggia l’economia reale, mentre il debito pubblico, invece di ridursi, vola alle stelle. E’ quello che è successo dopo la crisi del 2008, con le manovre adottate da metà del 2011 ad oggi. Sul debito pubblico italiano, che costa per interessi oltre 85 miliardi di euro l’anno, ci guadagnano in tanti, in troppi e da troppi anni, non solo in Italia: dai Fondi delle vedove scozzesi a quelli dei maestri americani, per finire con le assicurazioni private tedesche. La favola dei sacrifici salvifici, dello scannamento dell’agnello italiano sull’ara del dio mercato, sembra tanto una scusa, buona per continuare spillare impunemente risorse ai gonzi che pagano le tasse, un giorno dopo l’altro, per servire un debito pubblico enorme che invece potremmo riscattare senza problemi: il debito pubblico è in mani italiane per oltre il 65%. E le famiglie italiane sono ancora ricche, tra l’invidia del mondo intero. Un benessere che durerà poco, con la pressione fiscale di questi anni.
A fronte di un debito pubblico immenso, le amministrazioni pubbliche italiane hanno a disposizione un patrimonio altrettanto consistente, accumulato negli anni, che oggi rende poco e niente. Quello fruttifero, mobilare ed immobiliare, varrebbe ancora circa 700 miliardi di euro a prezzi di mercato: va conferito tutto e senza eccezione al costituendo “Fondo patrimoniale degli Italiani” affinchè sia gestito oculatamente, senza venderlo né svenderlo. Dandolo in gestione, con affitti anche a lungo termine, adottando il long-lease come accade da secoli per i beni della Corona britannica. Se la metà del valore del Fondo venisse ceduta ai cittadini ed alle istituzioni finanziarie italiane che detengono titoli del debito pubblico, prevedendo la esenzione venticinquennale delle plusvalenze, il debito si abbatterebbe di 350 miliardi di euro, tornando ai livelli pre-crisi, pari a circa 1.800 miliardi di euro. Il Fondo non emetterebbe nuovi titoli di debito, altre obbligazioni garantite dal patrimonio, ma cederebbe titoli di partecipazione al Fondo: chi partecipa all’operazione diviene titolare di quote di proprietà, rinunciando alla status di creditore.
Il rapporto debito pubblico/pil si avvicinerebbe così al 100%, appena dieci punti più della Francia ed allo stesso livello degli Usa. Lo spread collasserebbe davvero, ed il rating della Repubblica italiana migliorerebbe di almeno tre notch: potremmo tornare alla AA con outlook stabile come nel marzo 1993. Abbattendo il rischio Paese, anche l’accesso al credito delle nostre imprese sui mercati nternazionali costerebbe di meno, togliendoci dall’occhio di un ciclone finanziario. Questo sarebbe il grande processo di liberalizzazione e di privatizzazione che serve all’Italia. Inutile prendersela ancora con i tassisti, con i notai ed i maestri si sci: la vera manomorta che attanaglia l’Italia è il colossale groviglio di interessi che si cela dietro le migliaia di aziende statali, regionali e locali e le centinaia di migliaia di immobili pubblici che rendono meno di zero.
Il Fondo patrimoniale sarebbe una nuova forma di investimento per le generazioni futute, per i fondi pensioni, per le assicurazioni sulla vita: un rendimento remunerato dalla gestione dei beni, e non dalle tasse. Il bilancio dello Stato risparmierebbe oneri per interessi per il totale dei 700 miliardi di asset conferiti, perché la gestione del Fondo renderebbe almeno un 4% netto anche sui 350 mliardi di parimonio rimasto in mano pubblica. La minore incidenza fiscale delle spese per interessi sul debito pubblico potrebbero superare di molto i 30 miliardi di euro l’anno. Si aprirebbe un’era nuova: tagli veri alle tasse ed investimenti infrastrutturali.
Una quota cospicua dei 350 miliardi del debito abbattuto andrebbe utilizzata per rilanciare l’economia, con tre Fondi di sviluppo, da 50 miliardi ciascuno. Il primo Fondo verrebbe destinato al settore immobiliare, per rilanciare gli acquisti di abitazioni, accollandosi cinque anni di preammortamento della quota capitale dei nuovi mutui. Si sgravano così le banche dei crediti verso i costruttori. Altri 50 miliardi andrebbero destinati alla ricapitalizzazione delle piccole e medie imprese: per ogni euro di nuovo capitale conferito o di utili non distribuiti si ha diritto ad un credito di imposta di identico ammontare. Anche il sistema bancario va sostenuto: le sofferenze sono arrivate a livelli inusitati, e così altri 50 miliardi devono andare a coprire fiscalmente le perdite subire ed assicurare le garanzie necessarie per far sì che il credito ritorni a fluire regolarmente verso le imprese. Ci facciamo un super T-Ltro per le nostre imprese, ma per investimenti a dieci-quindici anni: altrimenti, continuiamo con il credito commerciale, a breve, che non consente alle imprese di investire sullo sviluppo. Altro che colonializzazione straniera.
Non è affatto sicuro, quindi, che alla fine Matteo Renzi non darà ascolto a Marco Carrai. E si illude chi pensa che si arrenderà facilmente al tran-tran di un Enrico Letta, che ha trascorso un anno e più baloccandosi per cercare le coperture per l’Imu sulla prima casa, una rata alla volta, come un carciofo. C’è una immensa differenza tra il Governo Rernzi e quelli di Monti: non è andato a palazzo Chigi per fare il lavoro sporco di qualche mese, ma per restarci degli anni.
Abbattere il debito pubblico, quindi, non basta: serve un riordinamento complessivo dell’apparato pubblico, una sana restaurazione normativa. Bisogna abolire completamente la potestà legislativa delle Regioni, un feticcio inutile della Prima Repubblica. Dobbiamo unificare la normativa amministrativa in tutti i settori, dalla sanità ai rifiuti, dalla formazione professionale all’assistenza, come fu fatto nel 1865, con l’Unità d’Italia. La digitalizzazione dell’Amministrazione presuppone uniformità di procedure e di comportamenti. Solo così sono possibili veri confronti sul piano della efficienza: altrimenti si ripropongono opacità, deroghe incomprensibili, mentre l’arbitrio diviene automatico. Si scelga un modello, il migliore esistente, e lo si estenda a tutti senza deroghe: è un sistema emulativo, che porta i migliori ad emergere, a farsi avanti. Non c’è niente da inventare, solo da copiare.
In Francia, i comuni sono oltre trentamila, rispetto agli ottomila italiani: è il modo storico attraverso cui le comunità si rappresentano direttamente che va tutelato, mentre sono i servizi che vanno riorganizzati ad un livello aggregato, che ne consenta la necessaria efficienza. Devono mantenere il bilancio, la potestà impositiva, ma la gestione organizzativa va unificata. Occorre concentrare la gestione dei servizi locali al livello provinciale, spogliando i comuni dell’onere di gestirli direttamente: è inutile eliminare quelli più piccoli, pensando che questa sia la strada per avere maggiore efficienza. Anagrafe, catasto, asili nido, raccolta e smaltimento dei rifiuti, illuminazione pubblica, acquedotti, edifici scolastici, trasporti locali, polizia urbana, piani urbanistici, tutto deve essere organizzato a livello provinciale: ogni comune pagherà per quello che usa. Personale e mezzi vanno messi a fattor comune, per economizzare sui costi e migliorare i risultati. Vanno ripristinati i controlli esterni indipendenti, preventivi, sulla legittimità degli atti e delle spese.
Solo lo shock positivo dell’abbattimento del debito darà la forza per gestire il lungo e complesso lavoro di riorganizzazione dell’apparato pubblico e la valorizzazione del patrimonio mobliare ed immobiliare. Siamo tutti dalla stessa parte. L’Italia c’è.