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Tutti i motivi della (finta?) guerriglia fra Renzi e i banchieri alla Patuelli

Le banche, anche se hanno commesso molti errori negli ultimi anni, anche se sono le maggiori responsabili della grave crisi economica iniziata nel 2008, non per questo vanno demonizzate. In tutti i Paesi industriali, erano e restano un asset strategico delle economie nazionali, e proprio per questo meritano grande attenzione da parte di tutti, sia dei media che dei governi. Certo, molte banche, soprattutto quelle «too big to fail» (troppo grandi per fallire), non hanno fatto nulla per farsi amare dall’opinione pubblica: in Europa ci sono 25 milioni di disoccupati, ma i capi delle banche non hanno perso neppure uno dei loro privilegi. Nonostante la crisi, continuano a percepire stipendi milionari, e sono riusciti a scaricare il costo dei loro errori sulle famiglie e sulle imprese, costrette a sacrifici di ogni tipo: più tasse per i salvataggi bancari, meno salari, meno consumi, più disoccupati, e un’intera generazione di giovani privata di un presente dignitoso, che prelude a un futuro privo di certezze.

Per superare questa fase, negli altri Paesi europei i governi e le banche hanno fatto squadra. L’esempio della Germania parla da solo: la cancelliera Angela Merkel sa bene che le maggiori banche tedesche hanno compiuto speculazioni folli sui derivati e su altri titoli simili, ma non per questo ha dichiarato guerra ai banchieri. Anzi, ha fatto in modo che la politica nazionale e quella europea, compresa la Bce, convergessero verso un comune obiettivo strategico: mettere in sicurezza le banche tedesche, pilastro insostituibile dell’economia nazionale. Un gioco di squadra riuscito, come si vede dai risultati.

In Italia sta accadendo esattamente l’opposto. Il premier Matteo Renzi, nell’intervista al Corriere della sera di domenica, ha detto: «Le banche non hanno più alibi. Patuelli che fa la lezioncina all’annuale assemblea dell’Abi non si può sentire. Ho molto apprezzato la reazione pacata ma tosta di Padoan. Le banche adesso sono piene di liquidità. Diano i soldi alle aziende, invece di lamentarsi. Con l’operazione Draghi non hanno più ragione di lamentarsi, né di mettere in sofferenza i piccoli artigiani, gli imprenditori del Nordest, le partite Iva. Navigano nei soldi, li spendano. Grazie». Se non è una dichiarazione di guerra alle banche, poco ci manca.

Ma il premier non è l’unico a soffiare sul fuoco. Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, da poco nominato consigliere economico di Palazzo Chigi, martedì ha rincarato la dose su Repubblica: «Di fronte al credito che manca alle imprese e alle famiglie, di fronte al credito che pur disponibile entra in sofferenza, dobbiamo discutere i costi generali che gravano sul mondo produttivo, senza interventi disorganici come quello sull’anatocismo». Un attacco alle banche, ha chiosato la Repubblica, e a chi dentro il governo ha sostenuto il provvedimento sull’anatocismo (gli interessi sugli interessi), considerato da molti l’ennesimo regalo alle banche.

Che cosa aveva detto di così grave Patuelli? Aveva semplicemente ricordato che le banche nell’ultimo anno sono state caricate di tasse sia dal governo Letta che dal governo attuale, e ne ha fatto un elenco pignolo: l’imposta patrimoniale retroattiva sulle plusvalenze generate dalla rivalutazione delle quote azionarie della Banca d’Italia, detenute da banche e assicurazioni (il che «non ha dato la miglior prova della certezza del diritto in Italia»); l’addizionale di 8,5 punti sull’Ires 2013 introdotta nel decreto Imu, con il parallelo aumento al 130% dell’anticipazione Ires 2013. «Un’addizionale», ha sottolineato il presidente dell’Abi, «che contrasta con l’equità e l’uniformità dei trattamenti fiscali in Italia e in Europa, e sfavorisce la ricapitalizzazione delle banche italiane, proprio in occasione degli stress test della Bce». Più l’aumento dal 20 al 26% dei rendimenti finanziari, nel complesso un onere fiscale di 2 miliardi sulle banche per finanziare il bonus da 80 euro, che ha assicurato a Renzi la vittoria alle europee.

Poiché Patuelli è un politico liberale della prima Repubblica prestato alle banche, dunque un esponente del vecchio, il premier Renzi ha provato a zittirlo con termini offensivi: «lezioncina», «non si può sentire». Ma il giorno dopo, sul Messaggero, Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, prima banca italiana in Europa e seconda in Germania solo a Deutsche Bank, ha spiegato che Patuelli aveva ragione nel merito: «Piaccia o no, le tasse sulle banche vanno ridotte. Va sfatato il luogo comune per cui le banche possono resistere a tutto, perché così non è. Con l’Unione bancaria parte un mercato più aperto, più omogeneo e più competitivo. È chiaro che nel confronto europeo chi ha condizioni e regole domestiche più penalizzanti sarà sfavorito nella competizione. E questo certamente non è un bene per il Paese. Piaccia o no, prima o poi si dovrà prendere atto che le banche italiane sono quelle che sopportano il peso fiscale più alto in Europa. E dovendo operare in un mercato unico, a ciò si dovrà porre rimedio».

Banchiere numero uno in Italia, nell’intervista Ghizzoni si è rivelato anche un abile diplomatico, lisciando il pelo al premier invece di ricambiare l’attacco: «La credibilità di Renzi non è in discussione né in Europa né in Germania. Di ciò ho prove quotidiane». Elogio che tuttavia non cancella un fatto evidente: a differenza degli altri Paesi europei, in Italia il governo e le banche non sono sulla stessa lunghezza d’onda, anzi hanno visioni opposte su molte questioni, in primis sulle tasse. E questo non sembra il viatico migliore perché le due élites più potenti, politici e banchieri, possano cooperare in modo concreto, per il superamento della crisi economica.



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