Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo l’analisi di Tino Oldani, apparsa sul quotidiano Italia Oggi.
Ancora pochi giorni fa, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, e il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, si sono trovati a sostenere tesi contrapposte. La Lagarde, con una invasione di campo ormai abituale, ha esortato la Bce a imitare il «quantitative easing» della Federal reserve Usa, acquistando direttamente titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona con problemi di bilancio, convinta che sia un modo più efficace, rispetto ai prestiti Bce a buon mercato, per vincere la deflazione dilagante in Europa. Draghi, che forse si è stancato di polemizzare con la Lagarde per le intromissioni nella propria sfera d’azione, non le ha neppure risposto, preferendo rilanciare una sua tesi recente, per cui «serve una governance europea per le riforme». A prima vista, un classico dialogo tra sordi.
Ma poiché la Lagarde non è l’ultima arrivata, è giusto chiedersi a quale titolo intervenga sulla politica monetaria della Bce, e di riflesso sull’economia europea. La sua invasione di campo è davvero tale, priva di giustificazione? La risposta corretta è: no. La spiegazione è in una parola di origine russa, divenuta di moda in Europoa: troika. Da un paio d’anni, essa indica un triumvirato istituzionale, formato da Fmi, Bce e Ce (Commissione europea), che controlla il rispetto non tanto dei Trattati europei (materia che non potrebbe riguardare il Fmi), bensì quello delle regole introdotte con alcune modifiche dei Trattati, regole ferree, contenute in due distinti accordi intergovernativi: il Fiscal compact e il Mes (Meccanismo europeo di stabilità).
Dei due, il Fiscal compact è il più conosciuto. In sintesi, obbliga i Paesi dell’eurozona a rispettare il parametro del 3% nel rapporto deficit-pil, a non sforare un deficit strutturale dello 0,5% l’anno, e impone ai Paesi con debito eccessivo di abbattere ogni anno di un ventesimo la quota di debito pubblico che supera il 60% del pil. Per l’Italia significa l’obbligo per 20 anni, a partire dal 2015, di manovre annuali di circa 50 miliardi di euro, considerate da tutti insostenibili. Per completezza, il Fiscal compact è stato approvato dal governo di Mario Monti nel 2012, e inserito a razzo nella Costituzione, con l’avallo pressoché unanime del Parlamento, sotto la sferza di uno spread a 570 punti. Una cessione totale di sovranità nazionale, destinata a costare molto cara.
Meno note sono le novità introdotte dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità), deciso dal Consiglio dei capi di Stato e di governo nel 2010 per fare fronte alla crisi dell’euro, ed entrato in vigore nel settembre 2012. Mes e Fiscal compact sono complementari e, di fatto, hanno creato una nuova governance europea che scavalca i singoli governi per gestire le crisi finanziarie e salvare gli Stati a rischio di tracollo.
Volendo semplificare, il Mes è una riproduzione europea del Fmi, sia pure con una minore potenza di fuoco (ha 700 miliardi di euro di capitale, versati dai paesi euro, di cui 500 prestabili). Ed è proprio al Fmi che il Mes si affianca nell’effettuare i prestiti ai Paesi in difficoltà e nel controllare in modo rigoroso l’applicazione delle regole di austerità per riportare i bilanci statali in pareggio. In questa azione, il Mes e il Fmi operano di concerto con la Commissione europea, formando la famosa Troika.
Attenzione però ai dettagli, perché è sempre lì che si nascondono le trappole. Il Mes ha una propria personalità giuridica, i suoi dirigenti e i suoi beni godono di totale immunità, e di fatto, quando concede un prestito a un paese in difficoltà che ne abbia fatto richiesta, si sostituisce insieme ai soci della Troika nella gestione della politica economica del Paese debitore. Lo Stato debitore deve sottostare a tutte le imposizioni contenute nel piano di aggiustamento finanziario della Troika, costi quel che costi. È stato così in Grecia, con effetti sociali disastrosi. Ed è stato così in Spagna, Portogallo e Cipro.
Dunque, se la signora Lagarde si permette di dare consigli alla Bce, o addirittura di criticarla, lo si deve proprio alla sua presenza nella Troika, che nella gestione dei paesi Ue in crisi (e commissariati) conta ormai più degli stessi governi interessati, nonché del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Una cessione totale della sovranità nazionale.
Il bilancio dei primi due anni del Mes non appare affatto esaltante. In Grecia, grazie ai prestiti della Troika, l’unico beneficio è andato alle banche del Nord Europa, che hanno potuto recuperare per intero i loro crediti, mentre al governo di Atene sono rimaste le briciole (circa il 19% degli aiuti).
Anche per questo il Mes, ufficialmente un Fondo salva Stati, viene definito dai critici un Fondo salva banche. Definizione tanto più appropriata se si considera che alle riunioni del Mes in cui si valutano le concessioni dei prestiti ai Paesi richiedenti, sono ammessi come osservatori i maggiori istituti finanziari privati del mondo, come Nomura, Goldman Sachs, Merril Lynch, e così via. Con il risultato che le politiche economiche di austerità rischiano di essere dettate non dagli organismi democratici liberamente eletti dai paesi in crisi, bensì dalle grandi banche mondiali.
Quest’ultimo aspetto mette i brividi. Soprattutto quando un Paese inizia ad entrare nelle ipotesi di commissariamento. «Italia commissariata? Non esiste» ha detto il premier Matteo Renzi in una recente intervista. Ma pochi giorni dopo ha fatto specie che Elmar Brok, uno dei consiglieri più autorevoli di Angela Merkel, abbia detto al Corriere della sera: «Se rispetta le regole e fa le riforme, l’Italia non tema il commissariamento». Sarà pure un eccesso di pessimismo, ma sembra una conferma del fatto che l’ipotesi era nell’aria, e forse lo è. Una brutta aria.