Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori pubblichiamo il commento di Alberto Pasolini Zanelli, apparso sul quotidiano Italia Oggi.
Se non è una dichiarazione di guerra fredda ci assomiglia molto. E viene da fonte molto autorevole, dal «numero tre» della scala gerarchica di potere e responsabilità del governo degli Stati Uniti. Il presidente della commissione esteri del Senato americano, Dianne Feinstein, ha risposto a una precisa domanda con una parola sola, ancora più precisa e impegnativa. «È vero che i rapporti fra Stati Uniti e Russia sono tornati ai livelli della guerra fredda?». «Sì», ha confermato la Feinstein, rafforzando il concetto con una energica mossa del capo.
Le si è subito accodato il presidente del Comitato per la sicurezza interna, spiegando che Putin «sta ritornando alla mentalità della guerra fredda, come si vede dal suo orgoglio nazionalistico nostalgico della gloria passata dell’impero sovietico, per esempio con l’annessione della Crimea. Credo che il mondo debba levarsi e dire basta, l’Europa rimettersi assieme, a cominciare dalla Germania, per imporre a Mosca nuove sanzioni». Limitate, questo sì, ai settori commerciale e finanziario: la Feinstein ha escluso fermamente la fornitura di armi all’Ucraina.
Sanzioni, appunto, da guerra fredda, non calda che, precisano meglio, non attutiscono la serietà del giudizio sulla situazione. Che dichiarano comunque conclusa, o defunta, una era storica, quella inaugurata dalla caduta del muro di Berlino, dallo scioglimento del Patto di Varsavia e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. La fine del comunismo, la riunificazione tedesca, la divisione della Cecoslovacchia accaddero senza un solo colpo di arma da fuoco. E aprirono un’epoca di ottimismo generale, di peana al trionfo del capitalismo democratico e perfino della obsolescenza della guerra stessa. Un libro famoso di Francis Fukujama decretò ed esaltò la fine della storia.
Con qualche esagerazione, si trattava comunque di un evento grandioso ed esaltante, gonfio e fervido di conseguenze, non tutte equilibrate, non tutte meditate, non tutte prive di rischi. Il più grosso, lo vediamo a distanza, fu l’esplosione incontrollata della globalizzazione, che ora sappiamo destabilizzante soprattutto per l’Europa. Tensioni in buona parte coperte ma reali, che non potevano non trovare risvolti di ben altro genere, a cominciare dal risveglio dei nazionalismi un po’ in tutti i continenti, prima o poi anche in Europa e, conseguentemente, in Russia.
Vladimir Putin è la figura più rappresentativa, generalmente in negativo ma non senza una crescita di popolarità in patria. Il presidente russo è stato comunque come il catalizzatore di un fenomeno che si sarebbe probabilmente verificato anche senza di lui, perché troppi erano e sono i focolai di tensione. Basti pensare al deterioramento delle relazioni fra Cina e Giappone per il controllo di due scogli disabitati di limitato valore strategico ma di forte carica simbolica. Ed era soprattutto pronto, forse da sempre, il Medio Oriente, polveriera dalla fragile copertura, che alla prima scossa (salutata con incredibile ingenuità come «primavera» di un tempo nuovo) ha messo in moto una frana che non si è più arrestata e che non solo ha finito col trascinare l’intero mondo arabo e fino a coinvolgere Israele nella più impegnativa rischiosa e luttuosa delle sue guerre di Gaza, ma finito, ed era anche questo inevitabile, per stimolare il coinvolgimento della Russia.
I punti di «esplosione» si avvicinano nel tempo e nello spazio, stimolandosi a vicenda. E disegnano la mappa di una nuova guerra fredda, difficile da gestire ma innegabile al punto da forzare il «riconoscimento» che arriva ora da Washington.