Domenica 10 agosto la Turchia andrà alle urne per eleggere il suo primo presidente scelto dal popolo. Sono elezioni-chiave per il Paese della Mezzaluna, perché segnano una svolta rispetto al passato. Finora il presidente turco è stato eletto dal Parlamento, ma il premier Recep Tayyip Erdogan (leader del partito islamico AKP e in carica da 11 anni) ha cambiato la Carta costituzionale, forte della sua maggioranza, e adesso si candida a guidare il Paese sotto la veste di Presidente.
Un salto di qualità per lui, una preoccupazione in più per i suoi oppositori in patria e per tutti coloro che dall’estero guardano la Turchia scivolare sempre più lungo la china della deriva autoritaria di stampo islamico.
Il Paese che il laico Kemal Ataturk aveva plasmato a sua immagine e somiglianza oggi ha deciso di rimettersi il velo, dando ragione a tutti coloro che in fondo non si sono mai fidati di una democrazia islamica e di un governo improntato all’etica musulmana, perché la storia insegna che finora laddove c’è stato l’islam al potere le regole e la prassi democratiche sono finite in cantina.
Queste elezioni saranno vinte da Erdogan, non ci vuole la palla di cristallo per dirlo. Ma staremo a vedere con quanto margine il premier batterà gli altri due candidati, Ekmeleddin Ihsanoglu, ex segretario generale dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI) sostenuto dai due maggiori partiti di opposizione, e Selahattin Demirtas, il candidato del partito pro-curdo, nonché attivista noto nel movimento per le sue campagne contro il partito e il governo di Erdogan.
La Turchia che va al voto è un Paese in cui l’economia non dà più le soddisfazioni di qualche anno fa. E anche dal punto di vista sociale, la piazza si schiera contro Erdogan. Lo scorso anno il movimento di Gezi Park ha mostrato alla comunità internazionale il vero volto del premier, il suo autoritarismo, la sua capacità di calpestare impunemente i diritti civili.
La Turchia è maglia nera per la libertà di stampa nel mondo. La situazione si è aggravata da quando Erdogan è al potere, e con lui il folto cerchio magico di imprenditori amici. Tutti – si intende – col bollino blu dell’islam ben in vista sul bavero del cappotto.
Donne col velo, divieto di vendere e consumare alcolici persino nel cuore occidentale della laicissima Istanbul, la Turchia di Erdogan ha visto sbocciare come funghi nuove moschee (negli ultimi 10 anni il premier ne ha fatte costruire 17.000) e, allo stesso tempo, ha assistito impotente all’aumento esponenziale delle violenze sulle donne. Violenze che nella maggior parte dei casi sono state consumate tra le mura domestiche, da mariti o padri o fratelli fedeli osservanti dei precetti dell’islam, e ammiratori del vice premier Bulent Arinç, quello che ha dichiarato che le “brave” donne musulmane non dovrebbero ridere di cuore perché ridere è peccato e non è in linea con il Corano.
La Turchia ha una lunga storia, costellata da terribili abusi di potere e colpi di Stato. Al momento, l’élite che costituisce la corte di Erdogan si sente al sicuro e vuole mantenere lo status quo, che gli ha garantito denaro e benessere. Ma la mobilitazione sociale e la forza della piazza non possono né devono essere sottovalutate. Lo spirito di Gezi è ancora molto vivo e nemmeno il pugno di ferro del “futuro” presidente riuscirà a piegarlo.
Queste elezioni riflettono quanto la Turchia sia cambiata negli ultimi anni e, soprattutto, fanno immaginare quanto continuerà a cambiare negli anni a venire. Per sapere come, dobbiamo aspettare il risultato delle urne.