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L’Italia tra deflazione e recessione, tra “annuncite”, paludi e gufi

L’Italia è un Paese in difficoltà. Il tasso di disoccupazione generale è al 12,6%, quello giovanile al 43% circa. Il PIL non cresce da anni e siamo sì, in questo caso, impaludati. In questi mesi è stata “smerciata” quella che ho definito “retorica della speranza” e il mio giudizio è negativo e pessimista.

Con la speranza non si mangia. Un “motto” toscano inizia così: “chi visse sperando…” e vi risparmio la conclusione poiché in perfetto stile toscano mi appare un po’ troppo volgare da scrivere. Già, la speranza non serve di per sé a niente occorrono semmai: onestà, chiarezza, concretezza e coerenza.

Non erano le riforme istituzionali, le cose necessarie ed urgenti. Oltretutto, se l’orizzonte di governo è da qua al 2017, appare ancora più incoerente e pretestuoso l’aver dedicato oltre 6 mesi alla questione della riforma del Senato. Questo tema poteva (e doveva) essere trattato con più serietà, pazienza e condivisione, su tutto l’arco temporale della legislatura. Sarebbe stato più serio e credibile. Mentre era il lavoro a dover ricoprire il ruolo principale: per urgenza, importanza, necessità e perché è questo che la “gente” ci chiedeva e ci chiede. Lavoro, lavoro e ancora lavoro!

Purtroppo ascolto parlamentari PD stracciarsi le vesti nel sostenere senza se e senza ma l’azione del Governo, e francamente ci vedo una rinuncia consapevole alla capacità critica e all’autonomia. Una triste sceneggiata che si affianca all’azione fallimentare delle opposizioni, del M5S in particolare; e la finta opposizione del vero partito alleato dell’attuale premier, ossia Forza Italia. Che finge di essere in disaccordo, mentre è perfettamente in linea con le proposte di questo esecutivo. Che lo ricordo: non ha niente a che vedere con l’appartenenza di partito. E lo dico a tutti coloro che vorrebbe dirmi: non puoi criticare il Governo, perché c’è il Segretario del tuo partito. No, errore. La critica ad un esecutivo è sempre lecita e questo non ha nulla a che vedere con l’appartenenza partitica, l’ho detto altrove.

Nella puntata di InOnda del 1 settembre 2014, ospiti il deputato PD Matteo Richetti, il prof. Giavazzi e Giovanni Toti di Forza Italia, si è parlato di lavoro come urgenza e delle ricette “ipotetiche” indispensabili e risolutive di tutti i problemi del Paese: una sequela di cose superficiali, prive di sostanza e scontate, a mio modesto e, mi rendo conto, ingeneroso parere.

Si propongono sempre le solite soluzioni ai soliti problemi. Quelle soluzioni che hanno provocato i problemi stessi: la ricetta neoliberista più becera. Si dice che l’art.18 è un falso problema, possiamo essere d’accordo; ma non si può liquidare la battaglia sulla difesa dei diritti dei lavoratori come una cosa “old style” né come un freno allo sviluppo. Altrimenti rivediamo il concetto di sviluppo, ammettendo che esso può includere anche un’involuzione sui diritti a favore dell’arricchimento dei soliti pochi e noti. Inoltre, non si può prendere un modello da un Paese terzo (Germania) e chiedere che venga adottato anche in Italia, poiché è elementare che un modello che funziona benissimo in un Paese X può non funzionare in un Paese Y ed essere addirittura peggiore in un Paese Z.

Il Governo Renzi, Giavazzi, Toti e Richetti, al di là delle differenze culturali, professionali e politiche, sono perfettamente allineati sulle ricette “neoliberiste” e le definisco così proprio perché è una nuova ideologia della politica e dell’economia, sembra essere tornati a 50 anni fa quando Milton Friedman parlava di un “abominio” nell’associare le parole “sociale” e “responsabilità” alla dimensione dell’economia e dell’impresa, come ho avuto modo di argomentare in un mio lavoro di qualche anno fa.

Ebbene, c’è quel diritto di dissentire a cui io faccio appello e diritto all’uso del pensiero, che mi obbliga a dire,amici o non amici: fermatevi e riflettiamo meglio!

La riforma del Governo Schroeder realizzata tra il 2003 e il 2005 non può essere considerata un modello di riferimento in modo acritico, per almeno due ragioni essenziali, che ho già descritto in passato: a) perché il contesto storico e sociale della Germania ai tempi di Schroeder era estremamente particolare e assolutamente non paragonabile alla nostra attuale situazione; b) poiché non possono essere ignorate le conseguenze negative di quelle riforme sul mercato del lavoro, non dal punto di vista statistico, ma da quello della qualità del lavoro e della qualità della vita generata dal lavoro.

La riforma del lavoro in Germania ha introdotto sistemi contrattuali molto particolari: mini e midi job, che hanno prodotto una grande quota di “working poors” lavoratori a basso o bassissimo reddito, con retribuzioni orarie spesso vergognose. Il Governo CDU-SPD ha proprio in questi mesi, ma nessuno ne parla, approvato una legge che è quasi un correttivo a questo brutto scenario: il Mindestlohn, ossia un salario orario minimo di 8,50 euro lordi, per cui nessun contratto può andare sotto questa soglia. Una decisione in controtendenza rispetto ai contratti iperl-flessibili e a bassissima retribuzione oraria, esistenti in Germania da ormai 20 anni. Infine, l’emergenza della Germania era di porre un rimedio ad una situazione di povertà assoluta e disoccupazione allarmanti, dovute sia al crollo del muro di Berlino negli anni precedenti e alla ampia fascia di popolazione povera dell’ex DDR sia a seguito dei poderosi flussi migratori dalla Polonia e dall’Est Europa.

Non dobbiamo, inoltre, scordare che in Germania il sistema di riforma del lavoro è stato accompagnato da una potente azione di assistenza sociale, per cui lo Stato si fa carico di disoccupati e indigenti, con ingenti trasferimenti monetari. Proprio a causa di questo sistema si sono verificati molti abusi, ed è solo grazie ad una altrettanto efficiente azione di controllo che il sistema ha retto fino ad oggi, anche se Merkel e CDU hanno deciso di dichiarare guerra ai “parassiti” del sistema di assistenza sociale, anche ai comunitari.

L’Italia non ha bisogno di importare modelli di riforme di altri Paesi, per di più vecchi di 20 anni e per di più altamente critici. Ha necessità di: a) pensare seriamente ad un modello di tutele del lavoro nuovo; b) una rivalutazione del significato della parola “dignità” in relazione al lavoro; c) smettere con la retorica delle tasse da tagliare, poiché in Italia sono molto più basse che altrove; d) introdurre vere azioni di controllo (anche se questa parola agli italiani fa paura e disgusto) e conseguente punizione per chi evade o elude il fisco (in Germania si finisce in carcere, come negli USA, e non ti consentono di essere eletto al Parlamento, ma nemmeno al circolo della bocciofila); e) dare di nuovo valore, al di là dello scontro ideologico, al ruolo dello Stato, come suggerisce l’economista Mariana Mazzucato ne il suo “lo Stato innovatore”; f) investire sui giovani in modo poderoso, provando in questo caso sì, ad imparare dal modello tedesco, che è davvero eccellente (rif. al sistema duale della formazione/lavoro).

Concludo questo lungo intervento chiedendo più serietà, più approfondimento e meno spot pubblicitari quando si parla di lavoro e occupazione, poiché dietro al dato statistico, che è facile manipolare, ci sono le vite di milioni di persone, giovani e meno giovani e il futuro di un Paese, il nostro.



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