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Cosa c’è di buono nella riforma renziana della scuola

Nel 1988 ero sottosegretario alla Pubblica istruzione. Si doveva rinnovare il contratto degli insegnanti, e c’erano un po’ di soldi disponibili (nel Novecento capitava anche questo). Con Maurizio Sacconi, allora sottosegretario al Tesoro, immaginammo un percorso virtuoso: utilizzare quei soldi per premiare il merito e non l’anzianità. Sul principio riuscimmo ad ottenere il consenso (informale, s’intende) non solo di Cgil, Cisl e Uil, ma anche del potentissimo Snals. E neanche il problema dei criteri di valutazione sembrava insormontabile, magari facendo riferimento ai contratti che regolavano altre forme di lavoro intellettuale (che ringraziando Dio già allora non mancavano), e senza disdegnare neanche l’ipotesi grossolana di adottare criteri quantitativi (di retribuire cioè il tempo di lavoro, come peraltro accade dall’inizio della rivoluzione industriale in poi anche per i mestieri più delicati).

Ma non fu necessario approfondire il tema. Nel frattempo infatti era insorta “la base”, intesa come qualche centinaio di docenti romani con facile accesso ai media. Venne fondata prima la “Gilda”, significativamente ispirata a modelli medievali, e poi arrivarono i Cobas. Finì che il ministro Galloni – sotto la pressione non solo dei media, ma anche dei partiti di maggioranza (Psi compreso) – ammise addirittura le due neonate organizzazioni al tavolo delle trattative: e i “gradoni” che scandiscono la carriera degli insegnanti in base all’anzianità furono salvi.

Dieci anni dopo qualcosa del genere venne in mente a Luigi Berlinguer, il quale però, forse ammaestrato dall’esperienza, investì della pratica lo stesso sindacato: finì con il “concorsone” di sapore sovietico allestito dalla Cgil scuola, e con la conseguente giubilazione del ministro.
Ora ci riprova Renzi, che certamente non è terzo fra cotanto senno: tanto che, dovendo fare le nozze con i fichi secchi (dal momento che governa in periodo di vacche magre), ha deciso di investire l’unica risorsa di cui dispone, il capitale umano.

Innanzitutto quello rappresentato dall’esercito dei precari da decenni in coda dietro docenti di ruolo le cui ambizioni spesso non vanno oltre i “gradoni”, e che possono invece portare nella scuola quelle energie nuove senza le quali non si fa nessuna riforma.

Quanto poi ai criteri per governare carriere meno automatiche, non c’è da preoccuparsi: in una scuola che non preveda solo lezioni frontali le mansioni diversificate dei singoli docenti saranno così numerose che ci sarà fin troppo spazio per la contrattazione sindacale.

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