Il termine “fede” ricorre diciotto volte nel “Principe” di Machiavelli. Mai, però, nel suo significato religioso, bensì esclusivamente nel suo significato mondano di lealtà verso gli altri, di fedeltà a una promessa, a un patto, a un contratto.
“La sinistra non esisterebbe senza discutere, poi sa anche essere leale”, ha affermato ieri Pier Luigi Bersani. Non so dire se l’ex segretario del Pd sia stato troppo generoso o troppo ingenuo nei confronti dei 101 parlamentari che hanno affossato la sua leadership, impallinando la candidatura di Romano Prodi al Quirinale (oggetto di una standing ovation alla sua presentazione).
Potrei continuare ricordando il voto dei senatori democratici sull’Italicum, franchi tiratori nel segreto dell’urna e silenti nell’assemblea del gruppo. Ma lasciamo stare. Il punto è un altro. La minoranza del Pd chiede di essere più ascoltata e di contare di più; e questo è comprensibile, oltre che un suo diritto.
Ma se i giornali non hanno travisato le loro dichiarazioni, ora alcuni suoi esponenti assicurano la loro lealtà se Matteo Renzi cambia linea (sull’assetto della segreteria, sulla legge elettorale e sull’austerity).
Che significa? Significa che se la linea del segretario del partito – nonché presidente del Consiglio – non cambia, la minoranza non sarà leale? Che si sentirà libera di giocare per conto proprio, magari continuando a usare strumentalmente l’argomento che i parlamentari non hanno vincolo di mandato?
Ma, qui torna il riferimento a Machiavelli, cos’è un partito se non un patto, un contratto, la fedeltà a una parola data? Una volta nel Pci c’era il centralismo democratico, che considerava chi dissentiva come la farina del diavolo. Oggi qualche suo nipotino sembra vagheggiare un federalismo licenzioso, che vede chi consente con il fumo degli occhi.
Forse, a proposito di Pci, parafrasando il motto di Palmiro Togliatti (“Ogni Stato ha i rivoluzionari che si merita”), si deve malinconicamente concludere che “Ogni partito ha le minoranze che si merita”.