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Guerra a Isis, Obama tra Iran e Siria

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Alberto Pasolini Zanelli apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

Tanto tuonò che piovve. Bombe, stavolta. E dove erano attese: sulla Siria, la destinazione più urgente secondo una delle scuole del pensiero strategico a Washington, quella che potrebbe chiarificare un quadro confuso e contraddittorio che si sta stendendo da mesi sull’intera area del Grande Medio Oriente.

Che può chiarire ma può anche confondere ulteriormente le idee. Sul piano militare non c’erano molte alternative. Bombe cadevano da tempo su ampie zone dell’Iraq, non per considerazioni a lungo termine ma come reazione all’invasione di una parte di questo Paese e delle conseguenti atrocità.

L’armata del Califfo non ha però invaso un Paese: è dilagata in due attraversando le frontiere come fossero inesistenti e ha anzi, in Siria, le sue basi più solide. Si proclama uno stato e ciò contrasta certamente con la terminologia diplomatica ma corrisponde a una realtà che ha pochi precedenti. Il Califfato, l’Isis, non conosce frontiere scritte e quindi da tempo era assurdo, soprattutto dal punto di vista militare, considerare belligerante un suo pezzo e neutrale quell’altro. Il governo americano ha esitato a lungo, tuttavia, prima di arrendersi alla logica militare. Se lo ha fatto è perché ha ascoltato finora di più le voci che gli raccomandavano di dare retta soprattutto alle conseguenze politiche, complicate anche dal fatto che le decisioni via via prese da Obama in queste settimane apparivano contraddittorie e deterioravano di conseguenza la credibilità di Washington.

La Casa Bianca ha detto e ripetuto che la partecipazione diretta Usa non include gli «scarponi» (boots on the ground, cioè gli scarponi a terra, le truppe sul terreno, ndr) ma si limita alla guerra aerea, arrotondandola con forniture di armi agli eserciti che si battono contro le milizie jihadiste, che dovrebbero così formare, con gli Stati Uniti, una «alleanza di volonterosi» del tipo che un predecessore di Obama, George W. Bush inventò per dare un nome alla sua campagna unilaterale contro l’Iraq di Saddam Hussein e che, proprio per l’insuccesso di tale iniziativa in lungo tempo, non raccoglie sufficienti consensi in patria.

Inoltre una strategia del genere rinnova nella memoria il fallimento della crociata contro il regime siriano di Assad, che è bersaglio da oltre tre anni di una guerra civile che ha causato oltre 200 mila morti e l’emigrazione forzata di quasi un milione di cittadini. Non solo, ma le promesse occidentali di aiuti (che dovevano consistere soprattutto in attacchi aerei) e il loro esito negativo sul piano militare sono riuscite soprattutto a indebolire il regime senza abbatterlo e a creare in gran parte della Siria un vuoto di potere in cui i jihadisti si sono infiltrati fino a diventare il più forte avversario del regime, emarginando i moderati, se così si può dire. La Siria è stata così per qualche tempo trascurata, anche perché l’Iraq appariva il teatro principale delle operazioni militari e politiche. Le incertezze si sono prolungate, i contrasti si sono approfonditi in America anche all’interno dell’amministrazione Obama, mettendo a nudo le discordie fra i politici e i militari, fra la Casa Bianca e il Pentagono.

Anche l’appello agli alleati appariva contraddittorio nelle diverse formulazioni e anche nelle risposte. C’era chi voleva combattere l’Isis e chi insisteva nella strategia iniziale in cui il nemico principale era Assad. L’esempio più esplicito quello della Francia, «crociata numero uno» contro Assad così come lo era stato contro Gheddafi (un’altra strategia fallita) e che poche ore fa ha confermato che bersaglio del suo contributo aereo sarà l’Iraq ma non la Siria. Più importante la divisione emersa fra i Paesi, che va trasformando una insurrezione integralista di una setta sunnita in una guerra generale fra sunniti e sciiti, appoggiati i primi dall’Occidente in un capovolgimento strategico: Bush volle abbattere il regime sunnita di Saddam Hussein per consegnare il potere agli sciiti, che ora verrebbero invece scaricati per aiutare i sunniti. In contraddizione, ancora una volta, con altre situazioni locali, che hanno visto ad esempio nelle ultime ore azioni belliche congiunte fra l’aviazione Usa e le milizie sciite armate e mantenute dall’Iran sciita, ancora considerato ufficialmente il nemico numero uno degli Usa nel Medio Oriente. L’allargamento dell’area bombardabile dall’Iraq alla Siria corrisponde certamente alla logica non soltanto militare ma potrà avere per conseguenza un ulteriore rimescolamento di alleanze, cooperazioni e complicità. È forse meglio per ora considerarlo un «male minore».


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