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Missione Libia, il paradigma del 2011

Il 31 ottobre 2011 si concludeva, dopo 222 giorni di campagna aerea sui cieli della Libia, l’operazione Nato Unifield protector. La missione era stata lanciata il 31 marzo in aderenza alle risoluzioni Onu 1970 e 1973 e “avvicendava”, con una struttura più organica sia da un punto di vista tecnico-operativo sia istituzionale, Odyssey dawn, iniziata il 19 marzo sotto forma di coalizione internazionale dai numerosi volti e dai numerosi nomi. Coalizione dei volenterosi, venne chiamata. In circa sette mesi di azioni le aviazioni dei 16 Paesi aderenti alla missione hanno condotto circa 26mila sortite, decollando principalmente dalle sette basi messe a disposizione dall’Italia, delle quali circa 11mila strike su di un totale di circa 15mila classificate come combat.

IL RUOLO SVOLTO DALL’ITALIA 

Il contributo dell’Aeronautica militare è stato fondamentale non solo per le 1.900 sortite portate a termine con successo e senza alcun danno collaterale, ma anche per il supporto vitale dato all’operazione, senza il quale “questa guerra non si sarebbe potuta fare”, per usare un’espressione che però il presidente Obama ha indirizzato a Sarkozy a margine del G-20 di Cannes nel novembre 2011, trascurando completamente il ruolo determinante rivestito dal nostro Paese in questo ennesimo conflitto dell’era moderna a cui l’Italia ha partecipato. È una nostra difficoltà vedere riconosciuti i meriti, che si trascina dalla prima guerra del Golfo e sulla quale i nostri politici farebbero bene a riflettere, prima di meravigliarsi o indignarsi della disattenzione della comunità internazionale. Ma al di là di questi aspetti che ci porterebbero lontano dal tema, la campagna di Libia detiene alcune particolarità sulle quali è opportuno soffermarsi. Intanto è la prima operazione internazionale di rilievo degli ultimi 20 anni in cui viene espressamente escluso l’intervento delle truppe sul terreno. La citata risoluzione 1973 del 17 marzo 2011, infatti, oltre a stabilire l’attivazione della cosiddetta no-fly zone, autorizzava ad “adottare tutte le misure necessarie per proteggere i civili e le aree popolate dai civili, escludendo però l’impiego di una forza di occupazione straniera di qualunque forma ed in qualunque parte del territorio libico”. E così è stato, in Libia ha agito il solo potere aereo nelle sue diverse espressioni. Si è discusso se il dispositivo di comando e controllo messo in essere dalla Nato fosse stato all’altezza della situazione, soprattutto se gli uomini scelti per dirigere l’operazione, in particolare all’inizio, avessero esperienza e conoscenze necessarie per applicare questa forza militare – e risposte in questo senso sono già state date – ma sta di fatto che in Libia si sono visti solo mezzi aerei e solo attraverso di essi si è giunti all’end state designato.

RAPIDITÀ, FLESSIBILITÀ , PRECISIONE 

Nella campagna aerea libica è stata sovvertita la teoria, apparentemente inossidabile, che vedeva il potere aereo in azione sempre a supporto di forze di superficie, mentre proprio grazie alle caratteristiche di rapidità, flessibilità, precisione, di persistenza ma anche di non persistenza si è potuto avere un impiego adeguato della forza militare senza impegnare truppe regolari sul terreno. Quello che è stato applicato in Libia è in realtà un modo di operare al quale sarà necessario rifarsi, come di fatto sta accadendo, nei conflitti presenti e futuri. La partecipazione ai quali dovrà essere valutata dai decisori politici tenendo ben presenti le esperienze di oltre venti anni di guerre. Vogliamo dire che forse è il caso di abbandonare l’ambizione di “Nation building”, sostenuta in anni di presenza in Afghanistan, di voler cioè costruire uno Stato libero e democratico come evoluzione dell’intervento militare. La realtà ci ha dimostrato che per fare questo sono necessari molti e molti anni, molti sacrifici, anche di vite umane, e ingenti costi. Tutte condizioni che nessun Paese, al momento, è in grado di sostenere o accettare. Se invece l’obiettivo è quello di difendere valori e conquiste culturali, scientifiche, sociali della comunità dei Paesi occidentali, forse è opportuno concentrarsi su di un apparato che abbia come elemento centrale e di forza il potere aerospaziale da applicare secondo una dottrina corretta, utilizzando i mezzi allo stato dell’arte nella consapevolezza che questi consentono interventi precisi, puntuali, adeguati al livello di minaccia, economicamente più accettabili rispetto alle formule del passato e, fatto non trascurabile, con un rateo di perdite sostenibile, perché pressoché nullo.

OMNI-ROLE FIGHTERS 

Tornando all’operazione in Libia, come già detto, nel corso della campagna è stata particolarmente apprezzata, ma anche richiesta, la capacità di alcuni velivoli da combattimento di svolgere contemporaneamente più ruoli. La capacità in pratica di combinare buone doti di autodifesa con capacità di attacco aria-suolo, con armamento di precisione, capacità di effettuare in autonomo l’identificazione di precisione dei potenziali obiettivi e capacità di illuminazione e guida, sempre in autonomo, dell’armamento di precisione. Per accentuare, in pratica, quelle caratteristiche di alta flessibilità e versatilità del potere aereo, necessarie per fronteggiare l’elevata dinamicità dell’ambiente operativo e garantire quindi in quel contesto la massima reattività e tempestività di risposta. Un tale orientamento dottrinario e operativo, provato in Libia sul campo, ha portato all’affermazione ormai certa del concetto di caccia onmi-ruolo, che trova i migliori interpreti nei velivoli di quinta generazione di cui l’F-35 appare come l’unica espressione credibile. Nelle future operazioni aeree, quindi, i caccia omni-ruolo diventeranno sempre di più un requisito necessario, irrinunciabile.



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