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Tfr in busta paga, ecco l’ultima pasticciata fiaba renziana

salario minimo

L’ultima trovata dell’esecutivo, in materia di stimolo dei consumi, è la possibilità di inserire in busta paga metà del trattamento di fine rapporto maturato in corso d’anno. Non è una proposta inedita, visto che risale almeno a Giulio Tremonti ed è stata di recente ripresa da Corrado Passera. Il tema è interessante.

IL DILEMMA LIBERTARIO

Intanto, la logica “libertaria”: perché costringere i lavoratori dipendenti italiani a un risparmio forzoso in funzione previdenziale? Non siamo tutti (o quasi) dotati di raziocinio e quindi in grado di gestire le nostre vite? Il punto però è riuscire a discernere se la “Libertà” è vera o presunta. In altri termini, vado a smobilizzare il mio Tfr perché l’ho deciso autonomamente, in assenza di costrizioni e stato di necessità, oppure perché sono alla canna del gas e non ho soldi né altre forme di risparmio a cui attingere? E già questo è un bel punto che di solito manda a pallino le teorie libertarie.

LE DIFFICOLTA’ OPERATIVE

Poi ci sono i problemi operativi, quei fastidiosi dettagli che di solito si frappongono tra la realtà ed i proiettili d’argento che, dall’inizio della crisi, in questo Paese fischiano a più non posso. All’appello non poteva quindi mancare il nostro premier, l’uomo che sta rapidamente diventando un fonderia di proiettili d’argento. Renzi, intervistato da Ballarò, ha trovato il modo di fare impiegare alle banche i fondi del TLTRO della Bce. Anzi, “di Draghi”:

Usare i “soldi che arrivano dall’Europa, quelli che chiamiamo i soldi di Draghi”, per spingere le imprese ad anticipare il Tfr nella busta paga dei dipendenti. Liberando, spiega il premier Matteo Renzi, “per uno che guadagna 1.300 euro, un altro centinaio di euro al mese che uniti agli 80 euro inizia a fare una bella dote”. La proposta comincia a prendere corpo nell’intervista di Renzi a Ballarò. Il governo – aveva spiegato ieri Renzi – lavora “perché il Tfr possa essere inserito dal primo gennaio 2015 nelle buste paga, attraverso un protocollo fra Associazione bancaria italiana, Confindustria e governo per consentire un ulteriore scatto del potere di acquisto”. Ma c’è un problema, che il presidente del consiglio solleva: “se diamo il Tfr in busta paga si crea un problema di liquidità per le imprese”. E dunque “stiamo pensando di dare i soldi che arrivano dalla Bce alle pmi per i lavoratori” (Ansa, 30 settembre 2014)

LE MAGIE TESORO-ABI

Ma è geniale, perché non ci abbiamo pensato prima? Quindi: si crea un “protocollo” tra Abi e Tesoro, giusto? Ma il fido così erogato, come sarebbe classificato? Dovrebbe essere assistito da garanzie accessorie o le banche sarebbero puri creditori chirografari? E che accadrebbe in caso di fallimento dell’impresa affidata, considerato che in questo caso il creditore a massimo privilegio è (sorpresa sorpresa) proprio il lavoratore e la banca finirebbe comunque in coda, anche se creditore assistito da garanzie?

I CONTI NON QUADRANO

E ancora: quale dovrebbe essere il costo di questo credito, per le imprese? Considerate quanto costa alle imprese la rivalutazione annuale del Tfr accantonato: il 75% dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, più uno spread fisso annuo dell’1,5%. In pratica, oggi saremmo poco sopra l’1,5%, vista la deflazione. Per tutto il 2013, tale rivalutazione è stata pari a 1,92%. Esiste un credito bancario, per quanto agevolato, che ha un tasso inferiore al 2%? No, vero? Che strano, eppure mi pareva un’idea così geniale e risolutiva.

ALTRE DOMANDE SENZA RISPOSTA

Ma che problema c’è? Il differenziale di tasso agevolato lo mette lo Stato, no? E anche la garanzia a favore delle banche del rimborso del credito, mi voglio rovinare, venghino! Beh, sì, ma se il Tesoro mette la garanzia sul rimborso del credito alle banche, ecco che lo stock di debito pubblico aumenta d’incanto; e se paga la differenza tra il tasso agevolato concesso alle imprese ed il costo “di mercato” del credito, il deficit pubblico si innalza altrettanto d’incanto. E qui sentiamo le obiezioni dei renzisti più colti: “eh no, ma se usiamo ‘i soldi di Draghi’, il costo è solo dello 0,15%”. Ma anche no, perché quello è il costo che le banche pagano alla Bce. Ad esso va aggiunto uno spread che esprime il merito di credito del debitore, cioè dell’azienda affidata. Voi quello spread lo vedete a zero? Noi no. Ma allora non possiamo far fare tutto alla Cassa Depositi e Prestiti? Davvero? Anche assumersi il rischio di credito “aggratis” coi soldi del risparmio postale degli italiani? Abbiamo comprato un biglietto di sola andata per l’Argentina?

Andiamo avanti: ipotizziamo che questo benedetto smobilizzo del 50% del Tfr arrivi comunque in porto, e che venga “tirato” integralmente dagli italiani. Come segnalato ieri sul Corriere da Massimo Fracaro e Nicola Saldutti:

Gli accantonamenti annuali per il Tfr ammontano a 25 miliardi, secondo i calcoli di Alberto Brambilla, l’autore della norma sul trasferimento del Tfr nei fondi pensione. Di questi, 5,2 confluiscono nella previdenza complementare, 6 vengono versati dalle imprese con più di 50 dipendenti all’Inps e ben 14 sono finanziamenti per le piccole imprese. Con quel Tir si costruiscono capannoni, si fa ricerca. Mettendo il Tfr in busta paga si aprirebbero, senza interventi compensativi, tre buchi: all’Inps verrebbero a mancare tre miliardi l’anno, i fondi pensione potrebbero contare su meno risorse e la previdenza integrativa continuerebbe ad avere vita stentata.

Concentratevi anche solo sulla frase: “All’Inps verrebbero a mancare tre miliardi l’anno”. Che facciamo, signor vulcanico premier? Li chiediamo “a Draghi”?

(l’analisi completa di Mario Seminerio si può leggere sul blog Phastidio.net)



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