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Caro Renzi, sul Jobs act non sto serena

Il duro attacco del Corriere della Sera al Premier Renzi – accusato di tutto, compreso di legami massonici con Berlusconi – è stato il segno di una svolta. I motivi li lasciamo ai dietrologi. Ma va notata una coincidenza: tali attacchi, più o meno identici, gli arrivavano nelle stesse ore da esponenti storici del Pd come D’Alema e Bersani. Il che significa evidentemente che il giornale dei padroni (il cda del Corriere non è certo espressione delle classi medie, né del mondo cattolico) la pensa più o meno come i dirigenti della parte più conservatrice del Pd.

Anche i Vescovi hanno lanciato qualche strale al governo su politiche familiari deboli, ma si tratta, diciamo così, di un ritornello normale. Ora invece sappiamo più chiaramente che un filo rosso ( ideologico e conservatore) lega i salotti buoni della finanza e del giornalismo e la razza post comunista. Contro entrambi Renzi ha dato segnali di insofferenza e di scarto. Vedremo come prosegue lo scontro. Intanto gli italiani soffrono, in attesa di tempi migliori (e di tasse più basse)

A Bologna, quando sei un po’ nervosa o aggressiva, la frase che più comunemente ti viene detta di rimando è: “stai serena”. Non: “ma cosa ti succede?”, “Perché fai così?”, “Vogliamo parlarne?”, parole che rivelerebbero un minimo di interesse per la tua personcina. “Stai serena”. La frase più “disinteressata” che c’è, taglia il dialogo o il litigio prima che inizino. Come se quel verbo e quell’aggettivo, messe in fila a formare un imperativo, potessero provocare un cambiamento ontologico, rendendoti realmente serena.

Io preferirei l’onestà: “Stai che peggio di così non si può”. La riforma del lavoro detta Jobs Act, ha posto al centro dell’attenzione la disciplina dei licenziamenti. Troppo e confusamente si è parlato (e si continua ) di articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: uno degli aspetti di maggiore interesse, per decisori politici e opinione pubblica, è se davvero si tratta di una eccezione tutta italiana o se invece non sia una tecnica di tutela presente, anche se certo non dominante, nel resto del mondo. Dunque un quadro comparato che fornisca una ricostruzione obbiettiva e oggettiva della normativa fa solo bene a tutti e non ci fa passare per imbecilli.

Poiché poi il licenziamento individuale è normato in una serie di paesi importantissimi per l’economia internazionale, dagli Usa alla Cina, al Giappone dalla Francia, alla Germania passando da Danimarca, Regno Unito, Spagna Svizzera, leggendo il Rapporto OECD almeno ce ne facciamo una opinione equilibrata.

Il testo integrale lo troviamo su Detailed description of employment protection legislation, 2012-2013. Per ora qui ci limitiamo a sottolineare alcune evidenze. Una caratteristica comune a tutti i paesi analizzati tranne gli USA è la motivazione il principale elemento discriminante tra un licenziamento legittimo e un licenziamento illegittimo. Solo negli States un lavoratore nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato, può essere licenziato a discrezione del datore di lavoro e a prescindere da una ragione giustificativa, ad esclusione del licenziamento discriminatorio. In America, dunque, la piena flessibilità in uscita nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, rende almeno sulla carta, il contratto a termine la tipologia contrattuale più garantista per il lavoratore o la lavoratrice poiché la libertà di recesso unilaterale per il datore di lavoro è inibita fino alla scadenza del contratto. Dunque riflettiamo, riflettiamo e cerchiamo una soluzione il più equilibrata possibile spazzando via la demagogia.



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