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Ecco una vera e salutare spending review

La spending review è cosa giusta. La spesa pubblica non è più sostenibile. La prassi di tagliare ivi per gonfiare altrove ha portato il Paese a traguardare un debito pubblico di oltre 2.100 miliardi di euro. Occorre, quindi, comprimere energicamente la spesa corrente, sì da godere a regime della drastica diminuzione dei costi conseguenti. Anche la sanità dovrà fare la sua parte, per come sollecitato dal ministro Padoan e via via accettato dall’omologo Lorenzin, dopo le resistenze iniziali poste a sostegno del recente Patto per la salute 2014-2016.

La sanità dovrà, pertanto, garantire almeno un miliardo di tagli, quale contributo al target di spending review previsto nel Def di aprile a 16 miliardi, con l’asticella al ribasso di almeno 5/6 miliardi per il 2015. Vedremo cosa farà in proposito la legge di stabilità, oramai al traguardo.
Il problema conseguente è quello di capire se e come sarà possibile al sistema sanitario sopportare una simile dieta. E, se percorribile, come fare per andare oltre. Un interrogativo che va affrontato seriamente e senza opporre alcuna resistenza ideologica nei confronti delle ipotesi innovative, specie di quelle tendenti a rinnovare l’attuale organizzazione della salute, seppure radicalmente.

Che la sanità, così come è sistematizzata, presenta delle sacche di spreco è innegabile. Così come è inconfutabile che in alcune aree del Paese i rispettivi servizi sanitari regionali sono retti da un management segnatamente inadeguato, tanto da fare amaramente constatare che a girare, nelle direzioni regionali e in quelle delle aziende della salute (e comunque nelle postazioni che contano), sono sempre gli stessi, anche quelli che hanno determinato i danni che sono stati causa della enorme debitoria pregressa, cui si è dovuto porre rimedio (!) con il ricorso ai piani di rientro e ai commissariamenti governativi. Basterebbe questa osservazione, di casa nelle cinque Regioni commissariate, ad esigere un cambiamento. D’altronde, la necessità di rintracciare sul panorama nazionale manager capacissimi cui affidare la gestione complessiva delle aziende della salute, sia territoriali che ospedaliere, è dovunque avvertita e non ovunque soddisfatta, tanto pretendere una immediata soluzione al problema più in generale.

Quanto alla spending review è necessario portarla a sistema e decisamente, e non già limitarla al taglio degli sprechi più evidenti, che sovrabbondano, e peraltro circoscritta ai costi ministeriali. Gli acquisti di beni e servizi diffusamente frastagliati e differenziati – non solo tra una regione e un’altra, ma addirittura tra aziende della salute della stessa regione – rappresentano il problema più evidente, che genera sprechi miliardari. A partire dal costo spropositato delle siringhe (quale prodotto meramente esemplificativo del quale si è occupata tanto l’informazione di inchiesta) sopportato in certe aree del centro-sud, rispetto a quello sostenuto ne resto del Paese (che non è affatto esente da sbavature di prezzo protese all’ingiustificato rialzo dei costi relativi) per finire al corrispettivo pagato, in modo segnatamente differenziato, per le alte tecnologie (Pet, Rmn, Tac e simili) passando dagli appalti per le pulizie – aggiudicati a prezzi esorbitanti o, peggio ancora, così come successo da qualche Ao calabrese, prorogati per oltre un decennio – e gli affidamenti a cooperative dei servizi amministrativi arrivati a livelli “occupazionali” inenarrabili, costituiscono quei sintomi nei confronti dei quali non si può far finta di nulla.

Ma anche le politiche retributive del lavoro, in termini di concessione di premialità non sempre dovute e di straordinari inammissibili (fatta eccezione per quei medici divenuti eroi per sopperire alle esigenze del blocco del turn over e agli eccessivi esoneri dai servizi dell’emergenza-urgenza ex legge 104/92 che ha creato in Italia un esercito di disabili) hanno contributo ad incrementare la spesa improduttiva. Non solo. Non sono più sopportabili le eccessive retribuzioni attribuite al management sanitario in senso lato, ingigantito da una politica che ha incentivato il massimo livello (im)possibile di unità operative, siano esse complesse che semplici, di Asl e Ao, spesso individuate con evidenti forzature della normativa esistenti, dal momento che hanno determinato una crescente alluvione di sprechi gravanti sulla spesa pubblica.

Ad una tale elencazione di costi ingiustificati non può non essere aggiunta – tralasciando le altre palesi disfunzioni per mere ragioni di spazio – la diffusa abitudine (consolidatasi nel sud con punte d’eccellenza in Calabria) di retribuire gli erogatori accreditati privati contrattualizzati oltre i budget convenuti, anche durante gli intervenuti regime di commissariamento governativo; così come la altrettanta diffusa anomalia di retribuire le strutture pubbliche e di finanziarle le aziende ospedaliere al costo storico di mantenimento piuttosto che in considerazione della loro produttività.
A ben vedere, la conta di ciò che si fa malamente consiglierebbe una seria rivisitazione del costo della salute, tanto da eliminarlo nella parte eccessivamente “sprecona” e destinarlo, per la differenza, all’incremento della qualità delle prestazioni da rendere che, in alcune realtà geografiche, raggiungono una qualità disumana, tale da passare sopra alla mobilità passiva oramai miliardaria.

E’ ovvio che tutto questo non basta per fare sì che si realizzi un sistema sanitario che raggiunga la “coppia massima” in termini di prestazioni essenziali realmente appropriate e di amministrazione efficiente. Per conseguire quest’ultimo obiettivo sarà funzionale la determinazione dei costi/fabbisogni standard, nei confronti dei quali è tuttavia da registrare un ritardo colpevole nel definirli da parte dei preposti ministeriali, tanto da supporre al riguardo una certa dolosità nel partorirli.

Il federalismo fiscale attuato in sanità potrebbe costituire, infatti, una metodologia vincente, sempreché siano utilizzati i migliori correttivi per la determinazione dei fabbisogni standard regionali. Il riferimento va agli indici di deprivazione socio-economica, utili anche per programmare e realizzare una onesta perequazione infrastrutturale, indispensabile per far sì che vengano eliminati quei gap, soprattutto tecnologici, patiti da talune regioni costrette a sopportare (per loro errori storici) percorsi di accertamento degli stati patologici effettuati con le tecnologie strumentali funzionanti “ a manovella” rispetto ad altre che godono di quelle di ultima generazione. Insomma, ben venga il federalismo fiscale purché tutte le regioni siano messe in condizioni parità, di correre partendo dallo stesso punto e di gareggiare con gli stessi mezzi.

Quanto all’organizzazione vera e propria necessiterà avere un coraggio da leoni solo che si voglia realizzare la reale sostenibilità del sistema e la concreta uniformità, pretesa dalla Costituzione, delle prestazioni dovute all’utenza.

Per fare questo occorreranno due riforme: una culturale e strutturale.
La prima. Quella utile a mettere al riparo il sistema salutare dalla abitudine disumana consolidatasi ovunque e a correggere l’attuale nomenclatore, che ha fatto sì che si traducessero innaturalmente: a) gli utenti, destinatari istituzionali delle prestazioni del SSN, in clienti; b) gli erogatori privati accreditati in sostenitori; c) le strutture pubbliche in serbatoi di voti, con operatori acritici al seguito; d) i medici, soprattutto quelli “di famiglia” nel ruolo di grandi elettori e, spesso, di candidati sicuri.

La seconda. Quella riguardante la indispensabile ristrutturazione dell’attuale aziendalismo. Questa potrebbe realizzarsi, alternativamente, percorrendo due ipotesi progettuali: a) agenzificando il Servizio sanitario nazionale, attraverso una agenzia nazionale e 21 agenzie regionali/provinciali (quest’ultime riferite a Trento e Bolzano) con ad esse preposti manager di alto profilo professionale selezionati mediante concorsi pubblici, destinati ad attuare la programmazione regionale socio-sanitaria; b) prevedendo, nel caso in cui non si voglia intervenire a modifica dell’attuale disciplina gestoria, una azienda unica regionale cui affidare i compiti relativi, oggi di competenza delle diverse Asl e Ao.

Una ricetta che potrebbe, complessivamente, portare a consistenti risparmi della spesa attraverso tagli “di precisione” e ad una ottimizzazione dei costi correnti.
Un risultato traguardabile a condizione che: 1) si realizzino le correzioni delle anomalie consolidate nel sistema, che “sporcano” i bilanci con spese inutili e clientelari; 2) si lavori per la necessaria riforma culturale che renda i cittadini autenticamente utenti e pretendenti di un diritto costituzionale reso uniformemente esigibile; 3) si faccia una riforma strutturale di sistema, nell’uno ovvero nell’altro modo, ma la si faccia velocemente.

Dal corretto adempimento politico potrà derivare un taglio complessivo di circa 4 miliardi di euro – al netto dei commissariamenti da rinsavire e da sottoporre a dieta relativamente ai costi collaborativi e accessori (per esempio eliminando gli inutili advisor, peraltro sovrapponibili ai compiti oramai affrontabili, per obbligo legislativo, dalla filiera dei revisori delle aziende della salute e della Regione) – che potrebbero positivamente contribuire al bilancio della Repubblica e ad una eventuale destinazione di risorse all’incremento quali-quantitativo delle prestazioni erogabili alle collettività.


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